Il "cigno" che diventò un'icona (e per prima portò i pantaloni)

Celebrata da Warhol e Capote, col suo fisico alto e snello fu un modello di eleganza in un'epoca di abiti bon ton

Il "cigno" che diventò un'icona (e per prima portò i pantaloni)

«Ci sono voluti 2000 anni di civiltà per dar vita a quel profilo» diceva Truman Capote dopo averle cucito addosso quel soprannome di «cigno» che le stava a pennello per via del collo lunghissimo e dell'intrinseca eleganza. Marella Caracciolo di Castagneto, moglie di Gianni Agnelli dal 19 novembre 1953, sembrava fatta apposta per affascinare lo snobbissimo scrittore americano. Aristocratica, longilinea, distaccata e riservata oltre ogni dire, era talmente chic da non passare inosservata neppure quando indossava un semplice paio di pantaloni con il più classico dei pullover di cashmere. Per altro i pantaloni dovevano avere quel taglio detto a trombetta che non segna, non è né troppo largo né troppo stretto in fondo, non ha niente di maschile. I pullover erano ovviamente di eccelsa qualità come tutto quello che toccava e sceglieva questa donna figlia del principe Filippo Caracciolo di Melito e di Margarete Clarcke, americana dell'Illinois. Prima di convolare a nozze con il più bel partito d'Italia, Donna Marella gioca per un po' a fare prima la modella e poi l'assistente di Erwin Blumenfel, il bravissimo fotografo statunitense di cui ricorda soprattutto il ritratto di un cagnetto piccolissimo accanto alle zampe di un alano. Ecco, vicino a lei tutte le donne si sentivano così, troppo basse e troppo grasse accanto a un cigno. Lei per altro era gentilissima. Diceva a chiunque frasi tipo Caro (o cara), come sta? Complimenti. Si rimaneva lì un po' attoniti ma in fondo consolati perché se una persona così raffinata si prende la briga di complimentarsi con te forse non sei del tutto uguali a un mazzo di spinaci bolliti dentro una scodella di plastica sbeccata. Certo, con il suo fisico alto e snello lei avrebbe potuto mettere qualsiasi cosa e stare bene. Invece aveva un'innata sobrietà che la rese subito perfetta come moglie di un grande borghese. Si sposò con un abito della sartoria Zecca di Roma che era stata fornitrice della Real Casa e che aveva comprato il cosiddetto patron (nome in codice del cartamodello) da Balenciaga, il Picasso della moda. Sei mesi e venti giorni dopo nacque Edoardo, ma neanche le due gravidanze (in seguito arrivò anche Margherita, la figlia che l'ha trascinata in tribunale) riuscì ad alterare quella linea da top. Portava benissimo il pigiama palazzo di Irene Galitzine, i meravigliosi double di Mila Schoen che le fece anche l'abito per il celebre ballo in bianco e nero di Capote, Pucci e Valentino. Alle sue sfilate parigine compariva sempre con i suoi eterni tailleur pantalone illuminati dalla fantastica collana a due lunghissimi fili di rubini, perle e smeraldi. L'aveva comprata al Gem Palace di Jaipur durante un viaggio in India con la cognata Cristiana Brandolini e con altri amici. Valentino faceva sempre in modo che il collo delle suo giacche non coprisse in alcun modo quel gioiello tanto amato. Arriva da lui il primo ricordo commosso della signora: «Un'altra amica ci lascia, un'icona di stile e una donna forte e generosa». In realtà il vero primo ministro della moda per Donna Marella fu Federico Forquet, un vero genio che non potrebbe tollerare la dilagante volgarità di questo mondo. Fu lui a consigliarle di abbandonare le sontuose pellicce tanto di moda negli anni Sessanta a favore di quello stile che all'epoca si chiamava «pelliccia dentro». Con lui condivise anche la passione per i giardini e infatti il titolo italiano della sua biografia scritta dalla nipote Marella Caracciolo Chia è Ho coltivato il mio giardino. (ed Adelphi). Molto più pertinente il titolo dell'edizione americana The Last Swan, cioè l'ultimo cigno. Chi la conosceva bene dice che le molte citazioni nel romanzo

I cigni della Quinta Strada di Melanie Benjamin (Neri Pozza) sono pura fantasia.

Sarà, ma quella donna dal collo lunghissimo e dagli occhi da cerbiatto, ne esce viva e bellissima, come se Avedon le avesse appena fatto quel ritratto più prezioso di qualsiasi Warhol per inquadrare la regalità di una regina senza corona.

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