Carne morta ed elettricità, una creatura enorme figlia del desiderio dell'uomo di farsi Dio, di battere il destino che ci condanna tutti ad un esistenza fugace. Ecco il mostro di Frankenstein, o il moderno Prometeo, il libro con cui Mary Shelley, nel 1818, cambio la letteratura, dell'horror ma non solo. Di quel «mostro», umanissimo, il cinema, procedendo per sottrazione semplificante, ci ha poi regalato un'immagine stereotipa e goffa. Forse anche per quello degli echi profondi del romanzo molto si è perso.
Franco Pezzini però nel suo nuovo saggio Fuoco e carne di Prometeo. Incubi, galvanisti e Paradisi perduti nel Frankenstein di Mary Shelley (Odoya, pagg. 400, euro 22) scava per tornare all'origine di questo capolavoro e restituire al lettore tutte le suggestioni andate perdute. Si parte ovviamente dal 1816, l'anno senza estate (eruzioni violente stravolsero il clima in tutto il mondo), Mary che si fa chiamare Mrs Shelley anche se lei e il famoso poeta non sono ancora sposati, si trasferisce sul lago di Ginevra col compagno. Lo fanno perché la sorellastra di Mary, Claire, vuole riallacciare la sua liaison con Byron che lì villeggia, con il suo medico personale John William Polidori. La accompagnano. Piove molto, si legge molto: storie gotiche (che terrorizzano Byron drogato di laudano). Poi si decide di inventarle queste storie gotiche. Nasce così l'Ur-Frankenstein su cui poi Mary lavorerà sino a trasformarlo in un romanzo pubblicato in tre volumi. Ma il pregio del lavoro di Pezzini non è ricostruire in dettaglio la genesi del romanzo, molto studiata, quanto piuttosto quello di rintracciare tutti gli influssi e i temi che la scrittrice è riuscita a fondere al suo interno. L'ambientazione polare e marina dell'inizio del racconto? Figlia in parte della Ballata del vecchio marinaio di Coleridge. Mary aveva conosciuto personalmente il poeta nella casa del padre, sentendogli leggere proprio questa sua opera famosissima.
L'esperimento da cui nasce il mostro? Ci sono gli influssi diretti degli esperimenti sul galvanismo, o elettricità naturale, che in quegli anni impazzavano nei salotti londinesi. E su di essi si innestò, poi, la lettura di anatomisti come Friedrich Tiedemann (1781-1861) e naturalisti come Erasmus Darwin (il nonno del creatore della teoria evoluzionistica). Tutti temi di cui si discuteva abitualmente a casa di Mary: suo padre era il filosofo libertario William Godwin e la madre la scrittrice Mary Wollstonecraft. Ma anche a villa Diodati, durante la vacanza ginevrina, il tema del galvanismo e della generazione della vita tornava di continuo. Mary ne colse il potenziale più devastante e pericoloso, l'eco più prometeico e luciferino. Del resto anche le citazioni bibliche nel Frankenstein tornano di continuo e Pezzini dedica loro molto spazio.
E Benjamin Franklin (1706-1790), l'inventore americano? Avete mai pensato ai suoi studi sull'elettricità? E al fatto che venisse chiamato, proprio per quello, il «prometeo moderno». Ecco che allora vederci un modello per lo scienziato Frankenstein diventa qualcosa in più di una suggestione. Più scontato che nei travagli dell'anima dello scienziato Mary abbia messo anche i travagli che vedeva scuotere il suo tormentato compagno di vita, Percy Bysshe Shelley. Anche la sua incapacità di essere un padre amorevole. E poi ci sono le suggestioni del Paradiso perduto di Milton, tutte le letture alchemiche che Mary attribuisce a Frankenstein (ma che evidentemente sono anche le sue o quelle di Shelley), le citazioni anatomiche, le letture sugli automi...
Insomma, se il mostro è costruito con lacerti di esseri umani che assemblati creano qualcosa di più grande e unico, Pezzini ci fa vedere con quali frammenti di libri e di cultura la Shelley ha composto il suo immortale romanzo. E ci spiega anche qualcosa sul dopo, su come il libro sia stato digerito e reso più innocuo. Anzi si potrebbe dire imbavagliato.
Il mostro di Mary parlava; il cinema l'ha zittito, e non è un caso. Ascoltare la voce della creatura che chiede conto al suo creatore, noi, era la parte più scabrosa del testo. L'orrore è accettabile, il sentirci chiamare in causa come responsabili delle azioni che facciamo meno.
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