San Paolo - Era il 4 febbraio del 1992 quando Chávez tentò un colpo di Stato contro il presidente del Venezuela dell'epoca. Il golpe fallì, morirono un centinaio di poveri cristi ma appena al potere, nel 1999, «el Comandante» trasformò la data in un simbolo della rivoluzione bolivariana. Le folle con lui erano oceaniche. Ieri nel 27esimo anniversario di quel golpe fallito, il dittatore Nicolás Maduro dal 10 gennaio è infatti decaduto per la Costituzione venezuelana ed usurpa per legge l'incarico - era quasi solo come un cane, non fosse stato per i 500 generali sovrappeso che lo accompagnavano, insieme a un po' di collettivi e di agenti fedelissimi dei corpi speciali. Penose le immagini da lui stesso postate su Twitter che lo vedono mentre cammina nelle zone adiacenti al Palazzo di Miraflores, Fuerte Tiuna e l'ex hotel Hilton, quartier generale del G2 cubano che cura per lui la «comunicazione» oltre che la sicurezza, dove poca gente al suo passaggio grida «Maduro solidale e rivoluzionario!». Dall'altra parte di Caracas, il presidente ad interim Juan Guaidó, ha invece parlato di fronte ad una folla, questa volta di giornalisti, per fare due denunce gravi. La prima è che la dittatura «ha intenzione di rubare gli aiuti umanitari» che stanno arrivando in Colombia, Brasile e in un'isola dei Caraibi. Aiuti «necessari per salvare da morte certa 300mila venezuelani». Il dilemma dunque «non è più se permettono di entrare o meno, ma se ruberanno quanto raccolto per poi distribuirlo attraverso i CLAP», il sistema statale con cui la dittatura di Maduro ricatta il popolo, garantendo un tozzo di pane in cambio della presenza a manifestazioni e della «fedeltà rivoluzionaria». «Mi appello alla coscienza dei militari» ha detto anche Guaidó, mentre ieri altri soldati e un capitano annunciavano di riconoscerlo come presidente. Poi ha denunciato il «tentativo dell'usurpatore di trasferire 1,2 miliardi di dollari provento della vendita petrolifera e che sono di tutti noi venezuelani in Uruguay». E ancora: «Ho parlato con alcuni membri dell'Esecutivo italiano. Speriamo che anche Roma riconosca la Costituzione venezuelana, la transizione e l'entrata degli aiuti, perché ci piacerebbe avere quel Paese fratello con noi, ma comunque l'aiuto umanitario entrerà in ogni caso» ha aggiunto Guaidó, rispondendo ad una domanda specifica sul nostro paese. E mentre un Maduro, sempre ieri, da un lato ha invocato un «bagno di sangue» e a dire di avere milioni di miliziani disposti a immolarsi «per difendere la patria dall'invasione dell'Impero del nord», dall'altro diceva di aver mandato una lettera a Papa Francesco perché accetti di mediare un dialogo con l'opposizione. Di certo c'è che Maduro da un lato chiama alla guerra e al dialogo il Santo Padre, dall'altro non ha nessuna intenzione di fare passare gli aiuti con ong, né con la Croca Rossa che ha già accettato di gestire la distribuzione mentre Guaidó proprio su questa distribuzione di cibo e medicine sta guadagnando ogni ora che passa più consensi. «Non c'è possibilità in Venezuela di una guerra civile, è una farsa che Maduro ha voluto vendere al mondo. Il 90% del paese vuole un cambiamento. Chi si immolerà per qualcuno che non ha appoggio politico, sociale e internazionale?» tranquillizzava invece il presidente ad interim. Che però poi ha concluso: «Ieri ho incontrato Cecilia, la madre di Jhony, un leader di La Vega, ucciso per aver protestato.
Il FAES è arrivato e glielo ha ucciso davanti, senza possibilità di scampo, come ha ammazzato altri 69 giovani in appena 10 giorni». È questo il rischio degli ultimi giorni al potere di un Maduro sempre più solo e disperato. Non ci sarà bisogno di Trump, i venezuelani si libereranno da soli perché non ce la fanno più e vogliono medicine e cibo.
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