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La dittatura del clic sulle interviste

La dittatura del clic sulle interviste

Il boss violento in galera, il cronista in convalescenza e l'informazione, per fortuna, resta a piede a libero. Dopo lo sgomento per la comparsa nell'agenda quotidiana di capocciate e manganelli, forse è il momento di fare una riflessione su uno dei cardini del giornalismo: l'intervista.

È un genere declinabile in mille modi, a seconda di chi le realizza, di chi vi si sottopone ma soprattutto dell'evoluzione dei tempi. In poche decine di anni abbiamo vissuto i ciclopici incontri di Oriana Fallaci, le secche domande di Enzo Biagi, i salotti di Vespa e Costanzo, i faccia a faccia di Minoli, persino il vacuo cazzeggio radical chic di Fazio e della Bignardi. Poi negli anni si è fatto avanti un nuovo genere, trasversale, che caratterizza una buona parte dei programmi tv informativi o pseudo tali: l'intervista temeraria.

Professionisti di lungo corso e coraggiosi principianti si dannano sotto la pioggia o il solleone per strappare due battute a riottosi protagonisti del momento, se non a personaggi border line. Spesso non se ne ricordano i contenuti ma soltanto gli effetti che hanno suscitato: bestemmie, minacce, telecamere rotte, sassaiole, fughe precipitose, operatori ammaccati. Questo accade in campi profughi, in accampamenti rom, in zone franche controllate dalle criminalità. L'«internettizzazione» delle interviste non risparmia neppure personaggi più o meno pubblici con risultati, anche in questi casi, irrilevanti. Dell'affare Consip, più che gli intrecci e i dossier taroccati, ricordiamo papà Renzi, abbordato per strada da un giovane cronista con la videocamera che lo tampina chiamandolo Tiziano finché questi non lo inonda di parolacce. Un filmato che soltanto sul sito Repubblica.it è stato visualizzato, a ieri sera, 56.171 volte.

Lo slogan del passato era «tutto quanto fa spettacolo», oggi il termometro dell'interesse si misura in clic. Un'intervista non deve essere costituita tanto da domande incalzanti e risposte argute, quanto da elementi «videabili» che producano visualizzazioni: dal pianto all'imprecazione, dall'insulto alle vie di fatto. Mettere il microfono sotto il naso a un malavitoso o al genitore pregiudicato di uno stupratore potrebbe magari riservare sorprese, non necessariamente improntate alla reazione bestiale. Se citano Kant li riabilitiamo? Se criticano la pressione fiscale li invitiamo a una tavola rotonda con le piccole imprese? Se criticano l'inadeguatezza delle legge italiane apriamo una riflessione? Se dicono che l'Occidente deve pagare le sue colpe secolari ci pensiamo su? Quesiti che, da liberali, lasciamo alle coscienze dei singoli.

I bavagli e le autocensure portano solo ai tempi bui, come insegna la storia. Saremo liberi (persino anche troppo) finché le videocamere inseguiranno chi vogliono, e volenterosi cronisti un po' maleducati faranno sbroccare per strada qualche pensionato fumantino con il figlio famoso. Al netto di testate e bastonate, faremo al massimo come al cineforum.

Seguirà dibattito.

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