I banchi di maggioranza e opposizione vuoti. Sulla poltrona dello speaker John Bercow troneggia uno dei fogli di protesta sventolati durante la notte contro il governo: «Silenced». Silenziati, zittiti, messi a tacere. Così si sentono i deputati dell'altra metà dell'emiciclo dopo la decisione del premier Boris Johnson di sospendere i lavori del Parlamento per le prossime cinque settimane, fino al 14 ottobre, quando mancheranno 17 giorni alla Brexit. Una scena surreale a Westminster, il tempio della democrazia chiuso nei giorni più drammatici e travagliati della storia recente del Regno Unito. Mentre i deputati bocciavano la chiamata del premier a elezioni anticipate, in Irlanda del Nord la polizia veniva attaccata a colpi di molotov a Derry, durante le perquisizioni per disarmare i terroristi della Nuova IRA. Una bomba è stata ritrovata poco dopo nella città simbolo della lotta armata tra unionisti e repubblicani, spauracchio delle trattative per la Brexit.
Quel che non possono più dire in Aula, i deputati lo hanno affidato ai social: «Democrazia chiusa, Parlamento zittito», scrive la laburista Anna McMorrin. Ma la sferzata peggiore, nella tribolata ultima notte di lavori parlamentari, l'ha data lo speaker Bercow, il presidente dell'Aula che ha deciso di far coincidere le sue dimissioni, dopo 10 anni, con la data della Brexit, il 31 ottobre. «Questa non è una sospensione normale, non è tipica e non è standard. È una delle più lunghe da decenni. E rappresenta - non solo nella mente di alcuni colleghi ma anche per un enorme numero di persone qui fuori - un atto per decreto governativo». L'espressione - an act of executive fiat - è la stessa spesso usata nella storia per i sovrani dal potere assoluto. La contrarietà di Bercow è palese, nonostante il governo abbia sostenuto la necessità di fermarsi perché la sessione parlamentare è stata la più lunga degli ultimi 400 anni. Lo sconcerto dell'opposizione esplode al momento dell'uscita dei Conservatori dall'aula: «Vergogna, vergogna», gridano in coro, mentre uno di loro trattiene la poltrona di Bercow e altri si fermano a cantare Red Flag, l'inno del Labour.
La crisi politica è fortissima. E rischia di straripare in crisi economica, una recessione annunciata. Le premesse ricordano i tribolati anni Settanta, l'Inverno del malcontento (1978-79) che portò al fermo di ospedali e raccolta della spazzatura, fino alla vittoria di Margaret Thathcer nel 1979. Mancano 50 giorni alla Brexit e all'orizzonte non c'è l'ombra di un accordo con la Ue. La sterlina ha perso il 17% dal referendum del 2016, lo scontro tra governo e parlamento è alle stelle, i piloti della British Airways in sciopero per la prima volta nella storia. E il leader dell'opposizione Jeremy Corbyn punta a Downing Street con un programma di nazionalizzazioni dei settori nevralgici dell'industria.
Oggi e venerdì sarà a Bruxelles l'emissario del premier Johnson, David Frost. Intanto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha nominato Phil Hogan nuovo commissario al Commercio. Irlandese, feroce anti-Brexiter, Hogan è l'uomo che dovrebbe trattare un eventuale nuovo accordo commerciale con Londra. Segno che la Ue non intende arretrare, mentre la Francia frena su un ulteriore rinvio che Londra dovrebbe chiedere, in base alla legge-blitz votata dall'opposizione, se non si troverà un'intesa entro il 19 ottobre. Qualsiasi cosa accada quando il governo tornerà in Aula presentando il suo programma il 14 ottobre (Queen's Speech), non ci saranno elezioni prima di novembre (servono 5 settimane). Il Labour vorrebbe ci si spingesse più in là, in modo che Johnson arrivi al voto senza più cartucce.
«Vuole la Brexit per i suoi ricchi amici» attacca Corbyn dal Congresso del Tuc, i sindacati confederati, che promettono battaglia contro Boris anche «nelle fabbriche». Corbyn pensa a un governo di transizione se, per ottemperare alle legge contro il no deal, Johnson si dimettesse lasciando l'opposizione con il cerino della Brexit fra le mani.
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