Politica

Il Dragone in ginocchio ora rinuncia ai dazi Fca costretta a chiudere una fabbrica in Ue

Pechino chiede aiuto agli Usa. Lagarde (Bce) ammette: «Preoccupazione»

Rodolfo Parietti

Non è un atto di distensione verso gli Stati Uniti la decisione presa ieri a sorpresa dalla Cina di ridurre i dazi su oltre 1.700 beni made in Usa, per un controvalore di circa 75 miliardi di dollari. Più che una scelta, una sorta di capitolazione davanti ai disastri economici provocati dal Corona virus. La paralisi in cui versa la Cina, un Paese dove l'emergenza sanitaria si salda con la desertificazione di aziende, punti di ristoro e uffici, potrebbe portare a una crescita del Pil di appena il 5% nel primo trimestre. A subirne le conseguenze sono anche le multinazionali straniere legate a filo doppio, per quanto riguarda le forniture, con le imprese cinesi. L'ultima in ordine di tempo a lanciare l'allarme è stata ieri Fca, che si approvvigiona nell'Ex Impero Celeste in quattro impianti produttivi. L'amministratore delegato del gruppo italo-americano, Mike Manley, in una conversazione con il Financial Times ha parlato di «situazione critica» in uno di questi stabilimenti, al punto da mettere a rischio la produzione europea. Entro due-quattro settimane, una delle fabbriche del colosso automobilistico nel Vecchio Continente potrebbe subire uno stop della produzione.

Anche Pechino ha assoluto bisogno di ripristinare la catena degli approvvigionamenti. Soprattutto in comparti fondamentali per il vivere quotidiano. Non a caso, fra i beni che a partire dal 14 febbraio saranno assoggettati a un'aliquota ribassata figurano il petrolio (dal 5 al 2,5%) e la soia (dal 30 al 27,5%).

È la mossa della disperazione. La prolungata guerra tariffaria con l'America ha provocato uno scivolamento del Paese dal primo al terzo posto nella classifica dei principali partner commerciali degli States e garantito a Donald Trump di ridurre del 17,6%, a 356 miliardi, il disavanzo rispetto all'ex Celeste Impero. Ora, il rischio è quello di veder vanificati gli sforzi fatti per raggiungere l'intesa con Washington. In un tweet di ieri, il direttore del China Global Times e megafono del governo, Hi Xijin, ha chiesto agli Usa di dare un po' di respiro alla Cina per quanto riguarda il rispetto degli impegni presi con la firma della Fase Uno. Pechino riconosce di non poter acquistare, nei prossimi due anni, prodotti americani per 200 miliardi di dollari. Ciò significa ritardare la seconda tranche dei negoziati, quella che avrebbe dovuto portare alla totale e reciproca eliminazione delle tariffe punitive.

La critica situazione in Cina sta intanto attirando giorno dopo giorno l'attenzione delle banche centrali. Davanti all'europarlamento, Christine Lagarde ha affrontato ieri l'argomento ricordando «come l'incertezza dell'impatto del coronavirus, è una rinnovata fonte di preoccupazione» in un contesto caratterizzato da «una crescita modesta» nell'Eurozona. La presidente della Bce ha però, per la prima volta, sollevato un problema da tempo individuato dagli economisti: tassi troppo bassi e inflazione anemica hanno ridotto «in modo significativo lo spazio per la Bce e le altre banche centrali in tutto il mondo per allentare la politica monetaria in caso di recessione».

Il nemico è là fuori, e il fortino è senza munizioni.

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