«L'attività siderurgica non può essere fermata altrimenti il nostro Paese non sarà più un Paese industriale». Il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha così stigmatizzato la norma del decreto Crescita che, eliminando lo scudo penale su Ilva, ha indotto Arcelor Mittal a preannunciare la chiusura dell'operatività italiana dal 6 settembre. Si tratta di una presa di posizione molto forte e che fa comprendere la gravità della situazione, considerato che il posizionamento politico del sindacato «rosso» è storicamente distante dalle ragioni delle imprese.
Il ministro dello sviluppo economico e del Lavoro, Luigi Di Maio, che ha invitato la proprietà indiana a non desistere poiché «se ne uscirà con buonsenso» (ribadendo di non accettare ricatti) ha convocato un tavolo sindacale al ministero il prossimo 9 luglio. Ma è una mossa improvvisata che fa emergere la superficialità dell'atteggiamento pentastellato. Ilva rappresenta oltre un quarto dei 24 milioni di tonnellate di acciai prodotti in Italia e tra impianti e indotto dà lavoro a 14mila persone. I Cinque stelle con un tratto di penna rischiano di cancellare non solo tutto questo, ma anche la spina dorsale del sistema industriale italiano. «È inaccettabile portare avanti politiche industriali in un quadro di regole incerte e soggette a cambiamenti, che mette a rischio non solo Ilva ma in generale gli investimenti nel nostro Paese, che come sappiamo ha bisogno di crescita, sviluppo, lavoro e certezza normativa», ha commentato il presidente di Confapi, Maurizio Casasco, preoccupato per le ricadute negative sulla filiera delle pmi che gravitano attorno ai poli siderurgici.
Non è un caso che il vicepremier Matteo Salvini abbia richiamato i suoi alleati di governo all'ordine. «A Di Maio ho detto che non si possono mettere in discussione 25mila posti di lavoro in un momento economico come questo», ha dichiarato alludendo anche al caos su Alitalia. È il pressapochismo, infatti, il minimo comune denominatore della politica industriale M5s. Ad esempio, visto che ieri la Lega ha continuato a premere per coinvolgere Atlantia nel salvataggio della ex compagnia di bandiera, Di Maio non ha trovato di meglio che tirare un'improvvida bordata alla famiglia Benetton. «Sto lavorando per risolvere la crisi di Alitalia, non dico che ho tutte le soluzioni ma mi lascino lavorare: se revochiamo le concessioni finisce che mettiamo dentro un'azienda decotta», ha affermato alludendo a quel provvedimento che il ministro delle Infrastrutture Toninelli vorrebbe adottare ma che il Carroccio ha finora stoppato.
Furente la reazione di Atlantia che ha limitato il calo a Piazza Affari allo 0,2% (Di Maio aveva infatti concionato a mercati aperti). «Le dichiarazioni perturbano l'andamento del titolo anticipando la presunta conclusione di un procedimento amministrativo, la società si riserva di attivare ogni iniziativa legale», ha spiegato la holding in una nota. «Abbiamo capito che per i Benetton contano più i mercati che le persone», ha replicato il vicepremier grillino drammatizzando sulla tragedia del Ponte Morandi (oggi è prevista la demolizione di due piloni rimasti monchi).
Per Confindustria la misura è colma: «Non si governa con l'ansia e il
rancore, la politica dovrebbe avere il senso del limite, sarebbe opportuno che il presidente del Consiglio chiarisca la linea da tenere su questi delicati dossier» , ha specificato l'associazione presieduta da Vincenzo Boccia.
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