Cronache

Il grande bluff dei ricollocamenti in Europa. Via dall'Italia solo 464 clandestini su 12mila

Lo scontro tra Haftar e Serraj dietro il pressing di Bruxelles. Il ruolo turco

Il grande bluff dei ricollocamenti in Europa. Via dall'Italia solo 464 clandestini su 12mila

L'hanno chiamata lettera all'Europa. Oltre alla firma del nostro esecutivo porta quelle dei governi di Spagna, Malta, Grecia e Cipro. Ovvero tutti i paesi toccati dal traffico di uomini. Con quella missiva i cinque paesi del fronte sud chiedono all'Unione europea di imporre una quota obbligatoria a tutti i suoi partner dimenticando le formule del Trattato di Dublino che impongono al paese di primo arrivo il dovere dell'accoglienza. Ma nel caso dell'Italia più che di una richiesta si tratta di una supplica. La redistribuzione dei migranti ci è già stata promessa durante quel vertice di Malta dello scorso settembre presentato dal neo-nato governo giallo-rosso come un grande successo negoziale. Oggi l'inconsistenza dell'asserito successo è scritta nei numeri.

Da settembre l'Italia è riuscita a far partire verso la Germania e altri paesi «volenterosi» appena 464 migranti. Il tutto a fronte degli oltre 11mila 800 sbarchi registrati sulle nostre coste dal primo settembre ad oggi. Insomma più che un rimedio la redistribuzione si è rivelata un'inconsistente foglia di fico insufficiente a nascondere le falle di un esecutivo che tra settembre e oggi ha totalizzato un numero di sbarchi doppio rispetto ai meno di seimila registrati tra il settembre 2018 e i primi di giugno 2019 quando agli interni c'era il contestato Matteo Salvini. A tutto questo s'aggiunge l'aggravante di una moltiplicazione degli arrivi avvenuta nonostante una chiusura dei porti e un blocco delle Ong reso possibile non solo dalla pandemia, anche dalla compiacenza di magistrati e procure. Ma il peggio forse deve ancora venire. La supplica all'Europa è figlia degli avvertimenti dei nostri servizi segreti che da settimane segnalano le evoluzioni di uno scenario libico dove la disfatta del generale Khalifa Haftar può avere ripercussioni devastanti per l'Italia. La prima riguarda i migranti. Da metà aprile Sabratha e le altre città del litorale occidentale sono di nuovo sotto il controllo dei trafficanti di uomini schierati con la Turchia e il governo di Fayez Al Serraj. Lì le milizie dei trafficanti controllano almeno 20mila migranti che possono venir rimessi sui barconi dando vita ad un nuovo esodo verso l'Italia. Quell'eventuale esodo è ormai fuori dal nostro controllo. Mentre il nostro governo dedicava tutte le sue energie alla pandemia la Turchia, grazie ai suoi droni, ai suoi mercenari e alle intese politiche con Mosca, ha sbaragliato le forze di Haftar e restituito a Serraj il controllo dei propri territori trasformandosi nell'unico demiurgo di Tripoli e dintorni. In questo contesto gli aiuti alla Guardia Costiera libica non bastano più a garantire l'Italia. Il ritorno in mare dei barconi è nelle mani di un Recep Tayyp Erdogan interessatissimo al gas e al petrolio della Tripolitania ed abilissimo nel trasformare le masse di migranti in strumenti di pressione politica ed economica. In tutto questo al nostro paese restano due carte da giocare. La prima si chiama Eni. Pozzi, condutture e commercializzazione del greggio funzionano grazie a generazioni di dirigenti libici cresciuti all'ombra di una compagnia italiana essenziale per garantire il fabbisogno energetico della Libia e alimentarne le centrali elettriche. Su questo patrimonio italiano e sull'influenza dell'Eni i turchi difficilmente possono metter mano nel breve periodo. La seconda carta è la nostra capacità di dialogare sia con la Russia, sia con gli Stati Uniti. Il destino di Haftar si è deciso a gennaio quando il generale ha rifiutato il cessate il fuoco concordato da Erdogan e Vladimir Putin e garantito da quest'ultimo durante la conferenza di Berlino. Dopo quel rifiuto Putin ha convinto Egitto ed Emirati Arabi ad abbandonare il generale al suo destino e puntare invece su un negoziato politico con Tripoli affidato al presidente del parlamento di Tobruk Aguileh Saleh. La prospettiva di una spartizione decisa da Russia e Turchia ha risvegliato un'amministrazione Trump fin qui poco interessata allo scenario libico. E questo può farci rientrar in gioco. Dopo la caduta di Gheddafi Washington delegò al nostro paese un rompicapo libico troppo complesso per il pragmatismo americano. E in Tripolitania restiamo un partner assai più affidabile dell'infido Erdogan. Ma anche con il Cremlino abbiamo dei crediti da giocare. Il contratto di Mosca per la costruzione della ferrovia Sirte-Bengasi arrivò a margine degli accordi per la costruzione dell'autostrada litoranea stretti da Gheddafi e Berlusconi. E fu l'Eni a garantire a Gazprom metà del pacchetto di controllo del pozzo Elephant considerato una delle grandi riserve energetiche della Libia. Insomma di assi nella manica ne avremmo ancora.

Manca solo un governo capace di giocarli.

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