L'armata Brancaleone dei miliziani in campo

Dagli estremisti islamici alle bande vicine a Erdogan ai «duri» di Misurata. E poi c'è Haftar

L'armata Brancaleone dei miliziani in campo

Il protetto del Sultano, le baionette salafite che difendono il governo dell'Onu, il generale che non fa prigionieri e la milizia che si ricorda ancora del leader libico impiccato dagli italiani nel 1922. Le brigate libiche e i loro capi, che hanno scatenato gli scontri di Tripoli degli ultimi giorni sono una variegata Armata Brancaleone con padrini esterni e l'obiettivo di dividersi la torta di prebende e corruzione.

La Settima brigata, che ha preso d'assalto la capitale, arriva da Tarhuna, una cittadina a una sessantina di chilometri a sud di Tripoli. Nella piazza principale c'è ancora il memoriale dedicato ad Ali Swidan Alhatmy, ribelle libico impiccato dagli italiani nel 1922. La tribù della zona era vezzeggiata dal colonnello Gheddafi, che manteneva il potere favorendo un clan contro l'altro. I miliziani che stanno attaccando Tripoli sono comandati dal colonnello Abdel Rahim Al-Kani grazie alla sua influente e larghissima famiglia. Prima del 26 agosto appoggiavano il governo di accordo nazionale di Serraj, ma adesso si sentono esclusi dalla spartizione della torta delle scarse risorse libiche e degli ingenti aiuti occidentali. La scusa è «liberare Tripoli dai corrotti che affamano il popolo». Il nuovo arsenale utilizzato nell'offensiva sarebbe di produzione francese.

Dietro ai fratelli Al Kani c'è il protetto del Sultano, l'intramontabile Salah Badi, rientrato dall'esilio dorato in Turchia per ripetere l'impresa dei terribili scontri del 2014, che hanno raso al suolo l'aeroporto internazionale di Tripoli. Badi era uno dei leader di Alba libica, il precedente governo targato Fratelli musulmani e scalzato dalla capitale.

Curioso che questo magma sia appoggiato dal generale Khalifa Haftar, l'uomo forte della Cirenaica, la metà orientale della Libia, ex fedelissimo di Gheddafi, poi bollato come traditore e scappato negli Usa. Alla fine rispuntato con la cosiddetta primavera araba del 2011. La leggenda vuole che il generale ami firmare con un pennarello indelebile le prime bombe delle nuove battaglie. La prima è stata la lunga offensiva che ha spazzato via Bengasi, seconda città del Paese ed i salafiti trincerati in città per anni.

Dall'altra parte della barricata le milizie che difendono Serraj non sono meno discusse e variopinte. La differenza è che ricevono, attraverso il governo libico, i soldi della Ue per stare in piedi. Haithem Tajouri, il leader delle brigate rivoluzionarie, la formazione armata più forte, è dovuto tornare in patria in tutta fretta dal pellegrinaggio alla Mecca. In realtà non è una figura politica o religiosa di spicco, ma vuole solo mantenere i suoi lucrosi interessi nella capitale. Al contrario Abdel Rauf Kara è un salafita tutto d'un pezzo al comando della Forza di deterrenza chiamata Rada. Circa 1500 uomini, in gran parte con i capelli rasati e senza baffi, segno distintivo degli integralisti islamici. Però, negli ultimi anni hanno dichiarato guerra alle cellule dello Stato islamico annidate a Tripoli e dintorni. La katiba Nawassi, altra brigata della capitale, quando non combatte contro i nemici di Serraj da la caccia a chi vende liquori o si rende colpevole di altri vizi peccaminosi di stampo occidentale. La brigata Abu Selim prende il nome dagli ex detenuti del più grande carcere di Gheddafi.

Fra le 300 milizie che si spartiscono la Libia, le più agguerrite sono quelle di Misurata, una città-Stato di fatto autonoma.

Dalla Sparta libica sono arrivate a dar man forte al governo di Tripoli le unità antiterrorismo dell'operazione Bunyan al-Marsous, che ha liberato Sirte dall'Isis. Il comandante è il generale Mohammed Zain, che fra le macerie dell'autoproclamata capitale libica del Califfato era orgoglioso di non fare prigionieri.

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