Ohibò in Libia non contiamo più nulla. Giuseppe Conte se n'è accorto al vertice Nato di Londra quando Gran Bretagna, Francia, Germania e Turchia l'hanno escluso dagli incontri in cui si discuteva di Siria e Libia. Uno smacco non da poco per un premier che ha sempre rivendicato il controllo del dossier Libia. Ma da quando ci ha messo le mani, durante quella Conferenza di Palermo del novembre 2018 in cui volle avere come ospite e protagonista un recalcitrante generale Khalifa Haftar, le cose sono andate di male in peggio. E adesso ci prepariamo a toccare il fondo.
Forte degli aiuti militari di Russia, Emirati Arabi ed Egitto e del sostegno di centinaia di mercenari al soldo della società russa Wagner l'Esercito Nazionale Libico di Haftar ha rotto uno stallo durato mesi ed ha ripreso ad avanzare su Tripoli. L'Italia, invece, non sa più che pesci pigliare. La sua irrilevanza internazionale riflette quanto avviene in Tripolitania dove la Turchia ci ha di fatto emarginato imponendosi come alleato chiave di quel governo di Fayez Al Serraj che l'Italia ha non solo aiutato, ma contribuito ad insediare. Una conseguenza diretta delle scelte di Palermo dove Conte, preoccupato d'ingraziarsi Haftar, trattò a pesci in faccia la delegazione turca. Una scelta che Ankara ci sta facendo puntigliosamente scontare sottraendoci spazio politico, economico e militare.
L'umiliazione finale è arrivata il 27 novembre con la firma del trattato turco-libico sul Mediterraneo. Con quel trattato, deciso e scritto ad Ankara, Turchia e Libia si sono spartite le acque dell'ex Mare Nostrum definendo una linea di 18,6 miglia nautiche (35 chilometri) destinata a segnare le rispettive «zone economiche esclusive» dei due Paesi e ignorando di fatto la presenza di Cipro e delle isole greche di Rodi, Creta e del Dodecanneso. A detta del ministro degli Esteri Luigi di Maio, intervenuto ieri nella Conferenza Med Dialogues di Roma, quel confine «è tutto da dimostrare». In verità l'illegittimità del trattato non è così scontata. «Per i due interessati - nota l'ammiraglio Fabio Caffio, esperto di Diritto marittimo - si tratta di un accordo pienamente legittimo, anche se è chiaro che i limiti di ogni accordo sono validi solo se accettati dalle altre parti interessate. Chiaramente Cipro e la Grecia non hanno nessuna intenzione di riconoscerlo, ma bisognerà vedere se mai si arriverà a un negoziato». Oltre alla Grecia, che ieri ha espulso l'ambasciatore turco, anche l'Italia rischia serie conseguenze. Ankara può utilizzare il trattato per imporre all'Eni di rinunciare alle ricerche di giacimenti di gas in quelle acque di Cipro dove oggi opera su concessione di Nicosia. Inoltre può ottenere da Tripoli le concessioni di ricerca relative a tutte le sue coste. Timori non certo immotivati. Già nel febbraio 2018 Erdogan spedì un'unità militare a bloccare la nave Saipem 12000 impegnata in ricerche nella Zona economica esclusiva (Zee) di Nicosia. Per un Erdogan affamato di risorse energetiche l'obbiettivo sono i diritti di sfruttamento delle riserve di gas. Diritti da affidare surrettiziamente alla Repubblica settentrionale di Cipro per poi trasferirli a quella madre patria che dal '74 occupa militarmente il Nord dell'isola. Ma l'Eni potrebbe vedersi scavalcata anche nella nostra ex colonia. Lì, stando al ministro turco dell'Energia Fatih Donmez, Ankara otterrà il via libera alle prospezioni costiere subito dopo la ratifica del trattato dal Parlamento libico. I giochi sono fatti e per l'Italia il bilancio regalatole dal doppio mandato di Conte rischia di rivelarsi disastroso.
Nella situazione attuale ci ridurremo al ruolo di vassalli di Ankara. In caso di vittoria di Haftar e caduta di Serraj dovremo invece negoziare con Russia, Francia, Egitto ed Emirati il mantenimento di una residua influenza in Tripolitania. Un vero successo a cinque stelle.
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