L ibertà di suicidarsi, ma non solo: anche diritto di aiutare il prossimo a andare all'altro mondo. È vasto, adesso che le motivazioni sono state rese note, il tema aperto dalla decisione della Procura di Milano di non chiedere il processo per Marco Cappato, l'esponente radicale che si è autodenunciato per avere portato in Svizzera a morire il disc jockey Fabiano Antonioli, meglio noto come Dj Fabo, ridotto alla cecità e all'immobilità totale. Per la legge, inequivocabilmente, Cappato ha commesso un reato, e assai grave, visto che è punito con il carcere da cinque a dodici anni: la norma è netta, senza distinzioni, e punisce «chiunque determina altri al suicidio ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione». Il che è esattamente quanto Cappato ha rivendicato di avere fatto, indicando a Antonioli la clinica svizzera dove attuare la dolce morte, e guidando personalmente l'auto dell'ultimo viaggio del dj.
Come sia stato possibile chiedere l'archiviazione del procedimento a carico di Cappato, non applicando una norma di legge assolutamente chiara, lo spiegano bene le quindici pagine di motivazioni firmate dai pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini. Le pm ricordano lo stato drammatico in cui si trovava il dj, le sofferenze terribili, la sua esplicita e ripetuta volontà di morire: dati reali, ma che per il codice non giustificano l'aiuto al suicidio. Le due pm infatti invocano una nuova legge che tenga conto di queste situazioni: «sarebbe altamente opportuno (e se ne auspica l'intervento urgente) che il legislatore italiano si facesse carico in prima persona del problema», scrivono. Ma poi, per via di fatto, si prendono loro stesse la responsabilità di cambiare le norme: appoggiandosi in parte alla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, e in parte alla Convenzione di Oviedo sui diritti dell'uomo e la biomedicina, che però l'Italia non ha mai ratificato.
I pm ammettono che nel caso di dj Fabo non ci si è limitati a sospendere le cure ma è stato necessaria l'iniezione di un veleno per sopprimere il paziente, che altrimenti avrebbe agonizzato per giorni. Ma sottolineano che non si è tratto di eutanasia ma di suicidio a tutti gli effetti, visto che «l'atto finale con cui è stata iniettata nelle vene di Fabiano Antoniani la sostanze letale che ne ha determinato il decesso è stato compiuto da quest'ultimo in modo totalmente autonomo (...) nel momento in cui ha premuto con la bocca il pulsante collegato allo stantuffo». E «il principio della dignità umana impone l'attribuzione a Antoniani e a tutti gli individui che si trovano nelle medesime condizioni di un vero e proprio diritto al suicidio».
I pm sanno che il problema però non è il diritto al suicidio (il suicidio in Italia non è mai stato reato) bensì il delitto che compie, per la legge italiana, chi aiuta a suicidarsi. Ma, dicono, se in casi come quelli di dj Fabo il diritto alla vita non è più un «bene giuridico tutelato», perché surclassato dal diritto alla dignità, allora «la condotta di aiuto al suicidio» diventa «penalmente irrilevante».
Le pm sanno di essere su una strada impervia, perché il giudice preliminare Luigi Gargiulo potrebbe respingere i loro ragionamenti, e limitarsi al fatto che, piaccia o no, in Italia per adesso la legge dice che quello commesso da Cappato è un crimine. Così chiedono che, se non condividerà le loro tesi, il giudice mandi tutto alla Corte Costituzionale, invitandola a dichiarare illegittimo l'articolo che non consente di aiutare chi soffre a togliersi la vita.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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