L'obiettivo di un milione di posti di lavoro creati entro fine legislatura, vagheggiato sabato scorso da Matteo Renzi, rischia di essere una chimera. Ieri l'Istat ha certificato che a maggio sono stati persi 51mila posti: il tasso di disoccupazione è salito all'11,3 per cento. Si tratta del primo rialzo dopo 8 mesi consecutivi di calo, ma il segnale è preoccupante.
In primo luogo, il tasso di disoccupazione giovanile ha segnato un incremento al 37% risalendo dal 35,2% del mese precedente. In seconda battuta, il dato non è frutto della crescita delle persone in cerca di lavoro: la percentuale di inattivi (coloro che non hanno un impiego e non lo cercano) è rimasta stabile rispetto ad aprile al 34,8 per cento. Ultimo ma non meno importante, la composizione delle forze di lavoro evidenzia un trend poco rassicurante. Gli incrementi occupazionali si registrano, da una parte, nella componente a termine (mentre calano sia il tempo indeterminato che gli autonomi) e, dall'altra parte, tra gli ultracinquantenni che restano al loro posto in virtù della riforma Fornero.
Gli indicatori occupazionali sono uno specchio dello stato di salute del Paese, mostrano che cosa è accaduto al sistema produttivo nei mesi precedenti a quelli della misurazione. Nel confronto anno su anno i posti di lavoro sono cresciuti e, secondo l'Ufficio studi di Intesa Sanpaolo, la media del tasso di disoccupazione del 2017 si dovrebbe attestare all'11,2%, poco al di sotto del dato di maggio anche se meglio dell'anno scorso (11,7%). Insomma, la ripresa è in corso ma i fattori di incertezza frenano il maggior ricorso alla manodopera nonostante le circa due decine di miliardi spese dal governo Renzi nel biennio 2015-2016 per la decontribuzione dei neoassunti.
Ecco perché il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, ha contestato la bontà delle politiche fin qui messe in atto. «Il fallimento del Jobs Act di Renzi è dimostrato dal fatto che calano i lavoratori permanenti mentre aumentano i contratti a termine», ha ribadito rimarcando che «il mercato del lavoro non si stabilizza positivamente anche perché manca una vera ripresa del Pil». La chiave di volta è, in fondo, tutta qui: una classe dirigente che esulta per un rialzo delle previsioni di crescita di qualche decimale finisce con il perdere di vista i fondamentali: senza un aumento costante della produzione (ancora lontana dai livelli pre-crisi) non si potrà conseguire un incremento vero dell'occupazione e l'offerta resterà sempre più concentrata sul tempo determinato.
Le priorità da affrontare sono quelle che Confcommercio ha definito «fragilità strutturali» del sistema. In un contesto nel quale il carico fiscale si abbatte contemporaneamente sul lavoro e sui consumi non si possono coltivare grandi aspettative. Soprattutto se si convive col timore che la fine del Quantitative easing della Bce possa far esplodere la spesa per interessi costringendo i contribuenti a ulteriori sacrifici. Oltre alla questione delle tasse il segretario confederale della Cisl, Gigi Petteni, ha sollevato altri due temi non trascurabili: sostenere la competitività del manifatturiero e concentrarsi sulle politiche attive per il lavoro, cioè sulla formazione.
Parole che ipotecano il confronto di oggi tra governo e sindacati sulla «fase 2» del welfare. Il ministro Poletti ieri ha confermato l'impegno a «promuovere l'occupazione giovanile» con la prossima legge di Bilancio. Il timore è che solo questo non basti, vista anche l'esiguità delle risorse.
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