Massacro a Gerusalemme: attacco alla sinagoga, 5 morti

Due palestinesi hanno assalito i fedeli con pistole, coltelli e asce Sei i feriti, uccisi gli attentatori. Netanyahu: risposta dura

È stato l'attentato più sanguinoso degli ultimi sei anni nella città santa di Gerusalemme. Due uomini palestinesi sono entrati ieri mattina presto in una sinagoga di un quartiere periferico, a Ovest, lontano dall'antico centro e dai quartieri del settore arabo a Est. Erano armati di pistola, coltelli e ascia. Hanno attaccato i fedeli riuniti per la preghiera. Hanno ucciso cinque persone, quattro israeliani con nazionalità anche americana e un britannico, prima di essere fermati dai colpi di arma da fuoco degli agenti intervenuti.

Quello di ieri è l'apice delle violenze che dall'estate, da quando tre adolescenti israeliani sono stati rapiti e uccisi e un ragazzino palestinese è stato bruciato vivo, colpiscono la città. Sono morte più persone nei due mesi passati che negli ultimi due anni: le vittime israeliane sono salite a undici, e almeno dieci sono i palestinesi e gli arabi israeliani uccisi in scontri con le forze dell'ordine. La catena di violenze - attacchi all'arma bianca o con automobili e ruspe - ha colpito soprattutto Gerusalemme, ma ha contagiato il Nord e toccato la quiete di Tel Aviv.

La ricorrenza degli attacchi ha portato giornalisti ed esperti a parlare di una terza intifada, di eventi paragonabili agli attentati che hanno terrorizzato la regione tra il 2000 e il 2005. Le immagini di ieri riportano alla memoria il dramma di oltre un decennio fa. Ci sono i libri sacri, i copricapi, gli scialle da preghiera insanguinati, un uomo è riverso sul pavimento, morto. Nel 2008, sempre a Gerusalemme, un altro luogo di religione, un seminario di studio dei testi sacri, era stato colpito: otto persone erano rimaste uccise.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha accusato il gruppo islamista palestinese che governa Gaza, Hamas, di incitamento. Ha fatto lo stesso con il presidente dell'Autorità nazionale, Abu Mazen. Il capo dell'intelligence, Yoram Cohen, ha preso le distanze: il raìs palestinese - ha detto - «non sostiene il terrorismo». Abu Mazen ha condannato l'attacco e accusato a sua volta «alcuni ministri israeliani di incitamento». Il riferimento è alle dispute sull'accesso ai luoghi sacri - il Monte del Tempio per gli ebrei, la Spianata delle Moschee per i musulmani - che da giorni infiammano la strada palestinese. Il premier Netanyahu ha dichiarato che Israele non intende cambiare lo status quo dei luoghi sacri. Da Gaza, Hamas, che ieri ha chiamato a rinnovare gli attacchi, ha detto che l'assalto alla sinagoga è stata «una risposta ai continui crimini contro la moschea di Al Aqsa», sulla Spianata delle Moschee.

Ancora una volta ad agire sono stati giovani palestinesi di Gerusalemme est e non, come accadeva in passato, residenti della Cisgiordania. All'origine delle recenti violenze ci sono spesso ragazzi senza precedenti di militanza, facili soggetti all'incitamento sui social-network, hanno scritto i giornali israeliani. Manca, hanno fatto notare, una chiara organizzazione, una leadership che coordini gli attacchi. Questo rende più difficile alla polizia intervenire. Come accade in Europa e Stati Uniti, anche in Israele oggi il timore è sollevato dai piani del «lupo solitario». «Non abbiamo al momento una soluzione migliore a questo tipo di attacchi», ha detto ieri il commissario della polizia di Gerusalemme, Yohanan Danino. A Gerusalemme est non esiste la collaborazione tra esercito israeliano e forze dell'ordine palestinesi - non presenti al di fuori della Cisgiordania - che c'è invece nei Territori, manca quindi lo stesso grado di intelligence su individui che hanno totale libertà di movimento in città, spiega al Giornale Akiva Eldar, editorialista israeliano del sito Al Monitor .

Netanyahu ieri ha promesso una risposta dura ma, spiega il giornalista, è difficile prevedere i

movimenti di individui singoli, senza organizzazione. L'unica soluzione è internazionale: «Dare ai palestinesi qualcosa da perdere», e «in mancanza di un processo di pace», spiega, entrambe le parti hanno poco da perdere.

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