nostro inviato a Piacenza
Nel 1993, quando Gualtiero Marchesi lasciò Milano, la sua tana in via Bonvesin de la Riva, per trasferirsi pentole e bagagli a Erbusco, in Franciacorta, Enrico Bartolini aveva quattordici anni, e - come ci racconta - «ero in terza media, mi stavo per iscrivere all'alberghiero con tutti i libri del maestro sugli scaffali della stanza in cui dormivo». Quel giorno di ventisei anni fa il capoluogo lombardo perse in un solo colpo uno dei suoi figli prediletti e l'unico ristorante con tre stelle Michelin avesse mai avuto. Fino a ieri, quando un altro suo figlio, stavolta adottivo, il Bartolini di cui sopra, toscano di un paesino tra Pistoia e Lucca, ha riportato la massima onoreficenza gastronomica a Milano. Ieri il ristorante Bartolini al Mudec, arrampicato in cima allo stiloso museo di via Tortona, è diventato l'undicesimo locale italiano con il triplo macaron, il terzo in Lombardia (piccolo record) e il primo a Milano.
Si pone fine in questo modo a una delle più grandi anomalie della vibrante scena gourmet di Milano, città protagonista assoluta dell'Italia che mangia (dell'Italia che fa qualsiasi cosa, ci verrebbe da aggiungere) con i suoi ristoranti fine dining fighetti, fighi e fighissimi, le sue trattorie moderniste in cui è impossibile trovare un tavolo, i bistrot e i «second restaurant» dei più grandi chef italiani che qui vengono a monetizzare la gloria altrove conquistata, i suoi etnici impareggiabili, le sue pizzerie gourmet, una sfilza mensile di aperture di cui parlano tutti (e di chiusure di cui non parla nessuno) ma senza un campione assoluto, una star da copertina. Fino a ieri, fino a Bartolini Enrico da Castelmartini, quarant'anni meno qualche giorno. Il messia, all'incirca. Lo acchiappiamo in una stanza del teatro municipale di Piacenza dove l'edizione 2020 della guida rossa è stata presentata e dove la mejo gioventù della cucina italiana si presenta ai giornalisti se questi li riconoscono e se non li riconoscono spippolano senza sosta sullo smartphone. Gli chiediamo se è conscio del traguardo storico, lui sta al gioco. «Per me conta molto, spero di contribuire a migliorare la città che mi ha adottato, sappiamo che alla Michelin sono molto severi, spero che Milano sappia trarre da questo ulteriore slancio, è una città già piena di ottimi indirizzi, da Vun al Seta al Luogo di Aimo e Nadia (cita gli altri ristoranti con due stelle della città, ndr). È pieno di grandi tavole, auguro a qualcuno di raggiungermi al tavolo delle tre stelle. Ammiro chi ha grandi pregi, chi ha difetti sono problemi loro». L'anacoluto è servito. L'ironia pure.
Bartolini ha un modo tutto suo di comunicare, sia a tavola, dove utilizza la sperimentazione estrema come elemento di rigrammaticatura del vernacolo, sia quando parla, lasciando esprimere più il non detto che il detto. Dietro la sua barba curata e il suo sorriso educato si capisce che è un vulcano in eruzione. Quando gli chiediamo di descriversi in una sola parola, dapprima di schermisce sostenendo che è più bravo a cucinare che a raccontare quello che fa, poi ci prova. «Autocritica. Negli ultimi tre anni (da quando ha aperto al Mudec, ndr) sono stato più autocritico che prima e consapevole che in passato bastava una sfumatura superficiale per mandarci in crisi mentre ora a forza di lavorare con la mia squadra siamo cresciuti tanto».
Bartolini è anche il primo ristorante in un museo a raggiungere il top. «In realtà io non sono il ristorante del Mudec, sono indipendente, con il museo condividiamo la stessa scatola. Ma questa vicinanza è feconda, l'arrivo di artisti mi stimola».
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