I calembour sul «Pd senza Speranza» hanno invaso il web. Ma - giochi di parole a parte - le dimissioni del capogruppo a Montecitorio, gettate sul tavolo durante la drammatica riunione di mercoledì notte, aprono un problema per il premier, da risolvere prima dell'arrivo in aula dell'Italicum, il 27 aprile. Le strade sono due: o la riconferma di Roberto Speranza, uomo «dialogante» della minoranza, ed è l'ipotesi preferita da Matteo Renzi (e pure da Speranza). Oppure la sua sostituzione: si parla dell'attuale vice-capogruppo Ettore Rosato, o del brillante renziano vicino a Delrio, Matteo Richetti. Ma l'ipotesi più probabile è che il premier lasci la carica alla minoranza, magari al responsabile Esteri Pd, Enzo Amendola.
Ma l'ipotesi preferita, si diceva, è quella della riconferma. Che lo pensino anche gli «speranziani» è apparso chiaro fin dal primo momento, quando uno di loro, Matteo Mauri, ha twittato: «Le dimissioni di Speranza sono un gesto forte e inusuale da rispettare. Spero che nessuno le consideri definitive». E Renzi è ben disposto a non considerarle definitive, ma «ora tocca a lui mettere qualcosa sul piatto», dicono gli speranziani, e quel qualcosa non ha più nulla a che fare con l'Italicum: sulla legge elettorale, ormai, il grosso della minoranza ha seppellito l'ascia di guerra. Si farà una battaglia di bandiera su alcuni emendamenti, ma poi si è pronti ad allinearsi alla linea del Pd: «Presenteremo tre proposte di modifica», dice Davide Zoggia, «poi, fiducia o non fiducia, voteremo comunque il testo». Ribadisce Cesare Damiano: «Da parte nostra non c'è alcuna intenzione di affossare il provvedimento, proveremo a correggerlo e poi lo voteremo». La trattativa per far tornare Speranza alla guida del gruppo avrà se mai al suo centro la riforma del Senato, sulla quale Renzi ha già ventilato la sua disponibilità a fare qualche modifica. Quali però resta un mistero, anche perché il regolamento del Senato (dove il ddl deve tornare) prevede che in seconda lettura si riesamino solo le parti modificate rispetto alla precedente. «E noi siamo prontissimi a modificare le baggianate che la minoranza Pd ci ha costretto a mettere nel testo, tipo il quorum per l'elezione del presidente della Repubblica o il controllo preventivo della Consulta sulla legge elettorale», ironizza un renziano. Insomma, la richiesta di modificare la riforma del Senato rischia di essere un boomerang per la minoranza. Nella quale i pasdaran, da Bersani a Civati passando per la Bindi, restano sulle barricate, convinti che ci sia ancora il modo per affossare Renzi sull'Italicum, magari a voto segreto, e sospingerlo fuori dal governo e soprattutto da quel partito di cui si sentono defraudati. «Altro che ritirata, la minoranza è unita e combatte», tuona la carica l'ex segretario, che però in serata smorza un po' i toni intervenendo a Servizio Pubblico: «Non vogliamo far cadere governo ma convincere a modificare il percorso». E poi: «Nessuno mi convincerà a uscire dal Pd perché è casa mia». Bersani comunque si annette i 120 deputati che non hanno votato mercoledì notte. Peccato che tra loro vi siano anche decine di assenti per tutt'altri motivi e anche di esponenti della maggioranza che avevano lasciato la riunione prima del voto. E che quelli davvero convinti a non votare l'Italicum siano non più di una trentina (come su Jobs Act).
In verità, la scelta di non votare (per non spaccarsi) nell'assemblea del gruppo di mercoledì conferma che l'unità della fronda Pd non esiste, e proprio questo è un problema per Renzi: «Non c'è un interlocutore, nella minoranza: noi facciamo accordi con uno e subito gli altri li disfano e li smentiscono. Per questo è difficile fidarsi, e la fiducia sull'Italicum diventa quasi inevitabile», spiega un luogotenente del premier.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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