Come un bravo pugile, il premier ungherese Viktor Orbán, andato momentaneamente al tappeto domenica quando il suo referendum sugli immigrati non ha raggiunto il necessario quorum del 50%, si è subito rialzato per riprendere il combattimento. In un provocatorio discorso al Parlamento di Budapest, ha detto di non avere alcuna intenzione di ignorare la volontà degli oltre tre milioni di ungheresi che hanno votato no e che anche se la consultazione non è legalmente valida intende egualmente modificare la Costituzione per vietare l'imposizione di una quota obbligatoria di profughi. «Abbiamo dichiarato guerra a Bruxelles - ha rilanciato - sappiamo che sarà durissima e che ci saranno vendette e rappresaglie, ma qui è in gioco il nostro futuro e non possiamo mollare». Orban ha anche rivendicato il fatto di essere stato il primo, con l'erezione dei muri ai confini con Serbia e Croazia, a difendere le frontiere esterne di Schengen e il primo a sottoporre, con il referendum di domenica, il problema dei migranti al giudizio del popolo: «Spero - ha poi aggiunto in una intervista - che altri Paesi seguano presto il nostro esempio».
Insomma, nonostante gli attacchi dell'opposizione di sinistra e perfino degli alleati di estrema destra, Orbán si è ostinato a vedere il bicchiere mezzo pieno, facendo notare, tra le altre cose, che gli ungheresi che hanno votato contro le quote sono stati più numerosi di quelli che, undici anni fa, approvarono l'adesione all'Unione. Non si tratta tuttavia, di un preannuncio di «Huxit», di uscita dell'Ungheria dalla Ue secondo l'esempio britannico, perché almeno fino al 2020 il Paese non può rinunciare al sostegno finanziario che riceve attraverso i fondi strutturali.
Se Orbán procederà davvero con la modifica costituzionale, e in caso positivo se questa otterrà la necessaria maggioranza in Parlamento, dove il suo Fidesz non la ha più, rimane da vedere. Se lo facesse, e fallisse, sancirebbe la sua fine politica e l'addio al sogno di diventare il leader di una «controrivoluzione» dell'Europa orientale contro «i burocrati dell'Unione». Ma se dovesse fare marcia indietro, finirebbe con l'ammettere che quella di domenica è stato il preludio di un ko.
L'Ungheria è da tempo «sotto processo» in Europa per le leggi liberticide emanate nel 2015, non solo nei confronti della stampa e degli organi costituzionali, ma anche contro gli stessi immigranti. Già oggi, gli illegali sono passibili di arresto immediato e chi viene sorpreso a tentare di valicare i muri ai confini può essere rispedito immediatamente indietro, senza prendere in considerazione eventuali richieste di protezione politica o umanitaria. Il Consiglio d'Europa ha definito le leggi ungheresi sui rifugiati «in contrasto con i principi morali e gli standard minimi di accoglienza», e pochi giorni fa il nostro Consiglio di Stato ha cassato la decisione di rimandare a Budapest - come previsto dagli accordi di Dublino un profugo che là aveva fatto domanda di asilo e poi era scappato in Italia per sottrarsi a condizioni di vita insostenibili. Orbán ha molto puntato, nella sua campagna, sul fatto che diversi responsabili degli attentati in Francia sono passati proprio dall'Ungheria cammuffandosi da profughi, e fatto balenare la possibilità che, se non si fermerà la ripartizione obbligatoria, altri terroristi potrebbero insediarsi nel Paese. Ma finora non ci sono stati attentati, e l'argomento non ha fatto presa.
A Bruxelles il mancato raggiungimento del quorum è stato naturalmente accolto con soddisfazione, se non altro perché Orban ne esce indebolito e quindi avrà meno voce in capitolo. Ma molto dipende ora da come interpreteranno i risultati del referendum non solo i Paesi di Visegrad, alleati dell'Ungheria, ma anche i maggiori partiti populisti occidentali, dal Front National ad Alternative für Deutschland. Sicuramente, si aspettavano qualcosa di più.
Ma 3,1 milioni di voti contro un programma di redistribuzione che, in realtà, non è neppure ancora decollato rappresentano senz'altro benzina per la loro campagna. E per l'Italia non diventerà sicuramente più facile ricollocare nel resto della Ue i migranti che continuano a sbarcare sulle nostre coste.
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