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Petrolio, armi e 17 miliardi: il dittatore è il "tesoro" di Putin

La Russia non vuole perdere gli enormi crediti maturati con Caracas. Che col regime può essere un suo avamposto

Petrolio, armi e 17 miliardi: il dittatore è il "tesoro" di Putin

Dietro la tragica confusione in cui si dibatte l'impoverito Venezuela è sempre più evidente il braccio di ferro in perfetto stile guerra fredda tra gli Stati Uniti di Donald Trump e la Russia di Vladimir Putin. É evidente l'intenzione della Casa Bianca di impedire che Caracas si trasformi irreversibilmente in un'altra Avana, scalzando dal potere lo screditatissimo Nicolàs Maduro con l'appoggio della quasi totalità dei Paesi latinoamericani. Più interessanti e complesse sono le motivazioni che spingono il Cremlino a legarsi al regime chavista-castrista e a ingaggiare per il controllo del Venezuela una sfida con Washington che davvero sembra rimandare indietro le lancette della Storia di oltre mezzo secolo.

In sintesi, le ragioni di Mosca sono di tre ordini: geopolitico, economico e di politica interna, strettamente connesse tra loro. Riguardo al primo punto, è evidente fin dai tempi della presidenza Obama che la Russia ha cercato di cogliere ogni occasione concessa da un rivale in fase di ripiego geostrategico per guadagnare spazi insperati. Da anni Putin tesse una rete globale che prevede intese con una serie di regimi che Ronald Reagan avrebbe con buone ragioni accomunato sotto l'etichetta di Impero del Male: dalla Cina all'Iran, dalla Siria a Cuba, dalla Bolivia fino appunto al Venezuela oggi nelle mani brutali di Maduro e dei suoi corrotti generali. É un gioco simile a quello che negli anni Settanta e Ottanta giocava l'Unione Sovietica di Leonid Brezhnev in Paesi come l'Angola, il Mozambico, l'Etiopia, l'Egitto, l'Algeria, il Vietnam, l'Afghanistan e tanti altri: l'obiettivo era allora ed è oggi il contrasto all'egemonia mondiale degli Stati Uniti. Il Venezuela non solo galleggia sul petrolio, ma ha anche una posizione strategica nel continente sud americano, affacciato sul Mar dei Caraibi che Washington pretende sia considerato cosa sua. Per affermare il suo ruolo di garante del traballante Maduro, Putin non esita a giocare carte militari, come l'invio a Caracas di un centinaio di uomini delle forze speciali e specialisti di cybersicurezza, arrivando nel dicembre scorso alla mossa che più di tutte ha suscitato la reazione americana: l'invio di due super bombardieri Tupolev-160 in grado di trasportare testate atomiche. Il messaggio era inequivocabile: non solo intendiamo difendere Maduro, ma vogliamo trasformare il Venezuela in un nostro avamposto.

Il secondo punto, quello economico, ha chiari legami con il primo. La Russia di Putin ha venduto a Chavez prima e a Maduro poi interi arsenali: sistemi anti aerei e missili russi proteggono i cieli venezuelani da eventuali attacchi americani o dei loro alleati, e le forze armate fedeli al dittatore di Caracas possono contare su aerei da combattimento, carri armati e kalashnikov made in Russia. Maduro paga i suoi conti in petrolio, ma i suoi debiti sono di gran lunga superiori alle disponibilità: solo tra il 2016 e il 2017 la Russia ha concesso prestiti per 17 miliardi di euro. Rosneft, la compagnia petrolifera russa gestita dal socio di Putin, Igor Sechin, ha oggi crediti per 10 miliardi, mentre il monopolista russo delle armi Rosoboronexport attende ancora il saldo di 11 miliardi di dollari per merce venduta a credito.

Il terzo e ultimo punto non è il meno importante. Consapevole della natura autoritaria del proprio sistema politico, Putin cerca sempre di impedire la caduta di simili regimi amici all'estero: teme l'effetto contagio, specialmente dopo quanto accaduto in Ucraina dopo la cacciata del suo fedelissimo Viktor Yanukovich.

Le pressioni della piazza contro Maduro non devono riuscire a farlo cadere, perché un domani lo stesso potrebbe accadere a lui: anche Chavez, qualche anno fa, era molto popolare, poi il vento è girato.

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