Premier come Churchill? Troppi errori e incertezze Sembra più Chamberlain

Il premier si accosta al leader inglese della vittoria ma somiglia invece all'incerto predecessore che permise a Hitler di dilagare in Europa

Premier come Churchill? Troppi errori e incertezze Sembra più Chamberlain

L'altro giorno ho scritto che questo Paese avrebbe bisogno di un Winston Churchill per affrontare la guerra contro il coronavirus. E ieri Giuseppe Conte si è subito calato nei panni dello statista britannico, citando la frase «la nostra ora più buia» con cui spronò il popolo inglese a resistere all'aggressione nazista. Solo che il paragone tra il nostro Premier e Churchill si ferma a quella citazione. Conte, non lo nego, a me è simpatico, ma la capacità di un capo del governo non si misura sulla simpatia o sull'antipatia e l'avvocato del popolo, mi duole dirlo, è l'uomo sbagliato nel momento sbagliato: un avvocato d'affari è più incline a mediare, a galleggiare, a districarsi nella giungla dei cavilli contrattuali, che non al coraggio delle decisioni. Più o meno come Neville Chamberlain, il primo ministro inglese che, per un eccesso di prudenza e di indecisione, permise ad Adolf Hitler di dilagare in Europa. Quel Chamberlain che proprio Churchill fu chiamato a sostituire.


Ecco Conte è più un Chamberlain che non un Churchill: con un atteggiamento ondivago e a volte contraddittorio, infatti, ha messo in campo delle politiche che hanno portato l'Italia ad essere il Paese con più contagi e più decessi dopo la Cina. E, possiamo dire tutto ciò che vogliamo, appellarci al fatto che siamo stati più scrupolosi nel numero dei tamponi rispetto ai nostri partner europei e quant'altro, ma la dura legge dei numeri non mente, specie quando riguarda i morti. Inutile nasconderci, quindi, non tanto per polemica (quella la lascio ad altri), quanto per non ripetere gli errori, che qualcosa non ha funzionato. Le cronache degli ultimi tre giorni sono spietate per il premier e il suo governo: la decisione di allargare la zona rossa alla Lombardia e ad altre 11 provincie, costellata da oscillazioni e fughe di notizie, ha creato panico e determinato una fuga di «potenziali» contagiati verso le altre regioni; il non aver previsto le più che probabili rivolte nelle carceri che accompagnano sempre le epidemie, ha determinato nuove morti e aumentato il clima di caos e sfiducia; il non aver chiuso la borsa di Milano ha mandato in scena l'ennesimo lunedì nero (-11%) e non tamponato l'esplosione dello spread che ha sfondato quota 200 punti (224).
Sono solo gli errori delle ultime 72 ore, che vanno ad aggiungersi a quelli di comunicazione che hanno cadenzato questa guerra fin dai primi giorni e messo a dura prova il rapporto empatico con il Paese.

Per non parlare dei ritardi: le decisioni non sono state assunte secondo una strategia pianificata in base all'esperienza, ma sull'onda dei problemi che si sono presentati: il governo non ha gestito l'emergenza, ma è stato incalzato dall'emergenza. Basta pensare che l'istituzione che più di tutte doveva essere chiamata in causa, quando l'epidemia ha assunto una dimensione nazionale in un teatro di crisi internazionale se non globale, cioè l'esercito, per ora ha avuto solo un impiego marginale: eppure non bisogna essere dei geni in logistica per sapere che l'organizzazione principale su cui uno Stato deve poter contare in simili frangenti (si tratti di un terremoto, di un uragano o, appunto, di un'epidemia) è proprio l'esercito.


La verità è che nella catena di comando qualcosa non ha funzionato e non funziona (il premier e i ministri Spadafora e Di Maio hanno detto anche l'uno il contrario degli altri sull'opportunità di tenere o meno le partite di calcio) e puoi avere anche l'esercito più potente del mondo, il popolo più forte e orgoglioso della Terra, ma se hai un comandante sbagliato, non adatto alla guerra, sei perduto. Ecco perché gli inglesi non esitarono a cambiare Chamberlain con Churchill proprio mentre il Führer sfornava piani per invadere la perfida Albione. Come pure, senza scomodare Londra, restando in Italia durante la Grande Guerra, il Re (quello che un tempo aveva lo stesso ruolo del nostro Capo dello Stato), non ci pensò due volte a sostituire il gen. Cadorna con il gen. Diaz dopo la disfatta di Caporetto. Oggi, invece, si contano gli errori esulandoli dalle responsabilità, nella logica, tutta nostra, che è lo stato di emergenza a determinare la fiducia in quel premier, in quel ministro o in quel governo (quasi fosse un obbligo morale) e non, invece, la constatazione che quel premier, quel ministro o quel governo sono capaci di fronteggiare l'emergenza. Così, per grazia ricevuta, pardon per fiducia, indipendentemente dai risultati e dagli infortuni, il premier ondivago resta al suo posto, come pure il regista della comunicazione Rocco Casalino, o, il ministro della Giustizia Bonafede, anche se preso alla sprovvista dalle rivolte nei penitenziari. «È possibile che nessuno abbia chiesto si chiede incredulo Matteo Renzi le sue dimissioni?». Intanto i morti sono saliti a 466 e i casi a 9.172.

In realtà proprio a Giuseppe Conte spetterebbe la prima mossa: quella di mettere in moto un processo che garantisca la gestione del presente e, contemporaneamente, crei le condizioni per dar vita ad un governo più efficace e a un equilibrio politico sorretto da uno schieramento più ampio. Dovrebbe essere lui ad assecondare il passaggio ad un gabinetto di guerra più competente con un altro premier, vedi Draghi, o chi per lui, e un supercommissario come Guido Bertolaso o Gianni De Gennaro.

Gli basterebbe avere l'onestà intellettuale proprio di Neville Chamberlain il quale, consapevole di non essere il primo ministro più adatto a guidare un governo di larghe intese per avere la fiducia di tutto il Paese nella guerra contro il nazismo (i corsi e i ricorsi della Storia), accettò di favorire l'ascesa di Churchill. Anzi, per rendere più forte il governo del suo successore ebbe l'umiltà di farne parte.

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