Premier incollato alla poltrona La minaccia: resto sino al 2023

Renzi si prenota per sette anni: «Due mandati e poi a casa se le vinco tutte, referendum ed elezioni». E si aggrappa a Milano: «Segniamo questo rigore»

Stefano Zurlo

Milano Al posto di «Luci a San Siro» di Roberto Vecchioni intonano una più tradizionale «O mia bela Madunina». I tre tenori - Matteo Renzi, Giuliano Pisapia e Beppe Sala - vanno sull'usato sicuro. Meglio non sperimentare troppo e dimenticare le contaminazioni color arancione alla vigilia di elezioni apparentemente in discesa, e invece sempre più insidiose. Del resto anche il candidato sindaco esce dagli armadi della tradizione ambrosiana e, come tutti sanno, è stato direttore generale del Comune ai tempi di Letizia Moratti.

Renzi aveva promesso che sarebbe venuto a Milano e mantiene la parola. Se la colonna sonora è solo nostalgia, ci prova la location a dare quel pizzico in più che si è perso nelle alchimie della coalizione che punta su un cavallo partito da destra. Siamo al Barrio's , il centro sociale creato alla Barona, periferia difficile, da don Gino Rigoldi, il cappellano del Beccaria. Qui Renzi pranza con 300 candidati e lancia la volata finale: «Non tutti sarete eletti ma se dopo aver superato la scocciatura della sconfitta vi rimettete a lavorare al ballottaggio, noi vinciamo a occhi chiusi».

Il suo futuro è già tracciato, la poltrona di Palazzo Chigi è prenotata fino al 2023. «Mi sono dato un tempo: due mandati e poi a casa, se non mi mandano a casa prima - spiega in un altro meeting ai cento studenti del Boston Consulting Group - La mia esperienza politica ha una scadenza, al massimo fino al febbraio 2023, se le vinco tutte, referendum e elezioni. Fra sette anni sarò un libero cittadino, non passerò nemmeno dal Palazzo per salutare o bere un caffè. Io devo cambiare il Paese e non un ufficio».

Curioso. Sembra il castello dei destini incrociati. Berlusconi vuol far saltare il lucchetto di Palazzo Chigi partendo proprio da Milano. Renzi, biografo di se stesso, minaccia di allungarsi fino al 2023, ma ammonisce i milanesi a tenere il suo passo.

Lo stile è quello di sempre: complimenti e patenti di eccellenza distribuiti a raffica. A Milano, a Sala e Pisapia, all'Expo e via spalmando il burro dell'ottimismo renziano su tutto e su tutti. «Milano - attacca il premier - è una città viva, energica, dinamica». E ancora: «Sapete chi ha salvato la festa di Expo? I milanesi che sono scesi in piazza con i pennelli e le scope». Era il 3 maggio 2015. E ora? «Milano - insiste il capo del governo - è una città troppo bella e troppo forte per farla diventare preda di operazioni politiche, anche molto serie, dall'altra parte». Dove, per operazioni politiche, s'intende la ricomposizione del centrodestra che a Roma è esploso ma qui si è ricompattato e, sondaggi alla mano, è testa a testa con il centrosinistra di Sala. Renzi prosegue confezionando una galleria di spot: «Questa partita che dobbiamo vincere è come un calcio di rigore che dovete tirare per bene. Chi si intende di calcio sa che un calcio di rigore lo puoi solo sbagliare tu, ma se lo tiri bene il portiere non può pararlo».

Insomma, il presidente del consiglio cerca di esorcizzare la paura. Sala lo segue a ruota e si butta sul dialetto: «Noi siamo la grande Milano e gli altri una banda di mal-trà-insema», che poi vuol dire male assortiti.

È il momento di mostrare i denti e Renzi affila i suoi: «Alla Lega voglio dire che la loro politica

estera è stata portare diamanti in Tanzania e comprare lauree in Albania». Pisapia rivendica la politica «con le mani pulite». Poi si rivolge a Sala: «Beppe, adesso continua tu». Per adesso però è un solo monologo di Renzi.

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