Referendum, Renzi fa i conti La fronda prepara la trappola

Il governo ha 60 giorni per fissare il voto: a novembre dopo la Stabilità. Il premier tenta di "spersonalizzarlo"

Referendum, Renzi fa i conti La fronda prepara la trappola

Roma - Come preannunciato, la Cassazione ha dato ieri il suo via libera ufficiale al referendum che dovrà confermare o bocciare la riforma del bicameralismo.

Ora la palla passa al governo, che dovrà stabilire la data. Matteo Renzi, rientrato dal Brasile, esulta per le nuove vittorie olimpioniche che ieri hanno proiettato l'Italia al secondo posto del medagliere. Quanto al referendum, ieri mattina si è limitato a rilanciare il tweet del Comitato «Basta un Sì»: «Adesso possiamo dirlo: questo è il referendum degli italiani». Poi a sera, nella sua enews, spiega: «In tanti mi hanno detto: Matteo, questa non è la tua sfida, non personalizzarla. Vero, questa è la sfida di milioni di persone che vogliono ridurre gli sprechi della politica, rendere più semplici le istituzioni, evitare enti inutili e mantenere tutte le garanzie di pesi e contrappesi presenti nella Costituzione. Un'Italia più semplice e più forte sarà possibile se i cittadini lo vorranno».

Sulla fissazione della data, si sta ragionando: sulla carta, il governo ha sessanta giorni dalla pronuncia della Cassazione per fissarla, ma si deciderà molto prima. Probabilmente, nel Consiglio dei ministri della ripresa, in settembre. E tenendo conto delle preoccupazioni del Quirinale, che preme perché prima della consultazione si approvi in prima lettura la legge di Stabilità. Per questo i bookmaker danno come scadenza la seconda o terza domenica di novembre.

Una cosa è chiara: il premier non ha intenzione di offrire sponda alle provocazioni della minoranza Pd, che continua a cannoneggiare il quartier generale con la minaccia di schierarsi per il No, portando così un Pd spaccato al referendum e aumentando le chance di una sconfitta del Sì. Con una ben orchestrata regia, ogni giorno un paio di esponenti della fronda bersanian-dalemiana vengono allo scoperto per chiedere modifiche all'Italicum. Ieri è stato il turno di Miguel Gotor, consigliere politico di Pier Luigi Bersani nella (fallimentare) campagna elettorale del 2013: se Renzi non cambia la legge elettorale, «votare Sì al referendum sarebbe un salto nel buio che tanti elettori e dirigenti del Partito democratico non si sentono di compiere anzitutto nell'interesse della democrazia italiana e poi del proprio partito», annuncia. Il premier si limita a sottolineare che «il quesito non tocca minimamente la legge elettorale».

Gli argomenti della minoranza sono del tutto «pretestuosi», ribattono in casa renziana. Innanzitutto perché, come ricorda il sottosegretario Angelo Rughetti, quella riforma Gotor e tutti gli altri la hanno votata «e quando hanno detto sì, l'Italicum era già legge». Il presidente della Commissione Bilancio di Palazzo Madama Giorgio Tonini è ancora più duro: i ricatti della minoranza Pd sono «surreali», spiega alla Stampa, perché «per rifare una legge elettorale ci vuole un'idea di come cambiarla e una maggioranza disponibile a farlo in Parlamento. Al momento nessuna delle due condizioni esiste. La verità è che stanno usando il referendum come arma impropria contro Renzi». E intanto, a difesa dell'Italicum, spuntano fuori i Cinque stelle, che con Roberto Fico: «Non ci piace, ma metterci mano ora, a un anno e mezzo dalla fine della legislatura, significa cambiarlo contro di noi».

Il via libera della Cassazione viene celebrato da Renzi: «Il comitato del Sì - a differenza di chi dice No - ha raggiunto le firme necessarie alla presentazione in Cassazione (ne servivano mezzo milione, ne abbiamo avute quasi 600mila, circa il triplo degli altri)».

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