Nei primi 60 anni della sua vita, il cavaliere del lavoro Piero Carlo Bonzano da Casale Monferrato, leader italiano della logistica integrata in grado di trasportare per terra, per mare e per cielo dallo spillo alla fusoliera di un aereo, s'era accontentato di occuparsi degli affari di famiglia e di sottrarsi all'angoscia da asbestosi che, da quando la Eternit ha smesso di lavorare l'amianto, incombe su tutti gli abitanti della località piemontese: «Pare che quelli della mia generazione siano immuni grazie alla vaccinazione contro la Tbc». Soprattutto non aveva mai fatto parlare di sé: profilo basso, niente panegirici sui giornali, poca vita di società, abbonamento in tribuna per la partita domenicale della Juventus come unico svago. D'improvviso, l'anno scorso, ha deciso di cambiare strategia. Dai 61 in poi doveva far conoscere l'ambaradan che ha messo in piedi nel breve volgere di un decennio: 4.300 dipendenti, di cui 2.300 in Italia; 33 sedi nel nostro Paese e 55 nel mondo (da Atlanta a Shanghai, da Buenos Aires a Mumbai, da Anversa al Cairo, da Caracas a Lódz, da Belgrado a Dubai); 551 milioni di fatturato e un centinaio di nuove assunzioni l'anno a dispetto della crisi; 20.000 ore di formazione del personale nel solo 2014.
Così, per prima cosa, ha chiamato Oliviero Toscani e gli ha chiesto di reinventare il profilo della sua impresa, il gruppo Argol Villanova, che dalla sera alla mattina è diventato Bcube: il logo dai colori psichedelici, con la «B» di Bonzano seguita dall'esponente «3», nelle intenzioni dell'ex creativo di Benetton segnala la spiccata capacità del presidente nell'elevare al cubo le potenzialità aziendali. Poi ha arruolato Gad Lerner come conduttore di un talk show alla Triennale di Milano per presentare quella che i pubblicitari a tassametro definiscono la corporate identity. Insomma, non ha badato a spese. «Ma no, Toscani è stato morigerato nella parcella e geniale nell'ideazione», minimizza. «Quanto a Lerner, ha accettato solo perché ama il Monferrato: qui ha una cascina dove produce una barbera da applauso».
Per capire il miracolo industriale compiuto da Bonzano, partito come fornitore d'imballaggi per la Fiat e oggi partner di colossi del calibro di General Electric, Fca, Finmeccanica, Nuovo Pignone, Abb, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Cnh, Alstom, Alenia, Agusta Westland, Lufthansa, British airways, Air China, Qatar airways, Danieli, Suzuki, Maruti, Osram, bisogna rifarsi a quella che lui chiama «raccolta del latte». Per esempio: un'auto è formata, a seconda dei modelli, da circa 10.000 componenti, dei quali però soltanto 3.000 nascono nella fabbrica dove viene montata. Gli altri 7.000 bisogna andarli a ritirare negli stabilimenti dove si producono e consegnarli a chi li assembla. Detta così, sembra una cosa facile. In realtà vi è dietro una trafila che richiede l'utilizzo di camion, treni, aerei, navi e, soprattutto, un'organizzazione meticolosa fatta di prelievo di materiali dalla linea di produzione, navettamenti della merce, stoccaggio, gestione in entrata e in uscita, carico e scarico di container e vagoni, spedizioni, pratiche doganali, etichettatura, imballaggio, packaging, distribuzione all'utente finale.
«La raccolta del latte è il primo stadio di una filiera assai complessa che ha richiesto anni di studio», spiega Bonzano. «Bisogna stabilire innanzitutto con quale frequenza va ritirata la materia prima per essere recapitata in tempo utile, né un minuto prima né un minuto dopo, allo stabilimento in cui sarà lavorata, il che significa tenere conto delle tempistiche produttive. Poi va scelto il vettore più idoneo: superati i 200 chilometri di percorrenza, la ferrovia diventa competitiva rispetto al trasporto su gomma. Quindi entra in ballo la logistica di magazzino: si deve organizzare lo stoccaggio ottimale del materiale. Dopodiché va scelto il supporto su cui consegnarlo, affinché sia preso in consegna più facilmente. Il che dipende da come funziona la catena di montaggio in fabbrica».
Bonzano è il regista di questa filiera che movimenta ogni anno merci per un peso complessivo superiore ai 2 miliardi di chili. Gestisce 2,8 milioni di metri quadrati, di cui quasi la metà di sua proprietà, cioè una superficie più vasta del Principato di Monaco e della Città del Vaticano fusi insieme; 66 chilometri di raccordi ferroviari; una flotta di 700 automezzi. Solo fra Italia, Polonia e Serbia movimenta 9 treni a settimana. La sua Bcube è l'unica presente in quattro dei primi cinque scali aeroportuali nazionali (Fiumicino, Malpensa, Linate e Venezia Tessera). Lavora per le griffe del made in Italy, come Ferrari, Lamborghini, Maserati, Luxottica, Bulgari, Lavazza, Indesit e Technogym.
Arriva a consegnare fino a Barrow Island, al largo dell'Australia.
«Lì la Chevron ha creato il progetto Gorgon: 18 pozzi petroliferi sottomarini perforati secondo un protocollo che impedisce d'introdurre per errore nell'isola malattie o animali nocivi. Abbiamo creato dentro l'hub logistico di Guasticce nell'area portuale di Livorno, inaugurato a fine gennaio con la divisione Oil & gas di General Electric, due hangar in cui gli autotreni possono entrare solo dopo essere stati sterilizzati. Le merci dirette in Australia vengono tenute in quarantena. Ho anche preso in gestione i magazzini dell'Aeronautica militare italiana e della Força aérea brasileira».
È difficile che i militari facciano entrare in casa propria un privato.
«Eppure è avvenuto, ovviamente con personale qualificato e adottando ferree misure di sicurezza. Centralizzando le procedure, riusciamo a consegnare i pezzi di ricambio degli Amx in 9 ore, assicurando ai cacciabombardieri un'efficienza del 90 per cento. In passato ogni base era oberata da scorte e giacenze inutili. Abbiamo trovato reperti risalenti all'epoca di Italo Balbo».
Da dove comincia quest'avventura?
«Dal legname che mio nonno Teresio Enrico Bonzano commerciava con l'Austria. Nel 1945 mio padre Luigi entrò in azienda. Il Monferrato è ricco di pioppi, che crescono lungo il Po grazie alle esondazioni. Papà si specializzò negli imballaggi delle merci. Visse tutta l'epopea per far nascere la fabbrica della Fiat a Togliattigrad: i materiali da mandare in Russia partivano dal Piemonte. E anche la stagione del boom: 300 operai a infilare Lambrette e lavatrici Candy dentro le casse di legno».
Lei quando entrò in scena?
«Nel 1976, mentre stavo per laurearmi in economia e commercio. Fosse dipeso da me, avrei preferito diventare ufficiale di Marina. Nel 1978 un dirigente della Fiat, mandato negli Stati Uniti a studiare l'organizzazione della Ford, convinse Gianni Agnelli che era preferibile esternalizzare alcune lavorazioni eseguite a Mirafiori. Insomma, conveniva di più, anche per via dei dazi, spedire le auto in kit nei 13 mercati della Fiat sparsi per il mondo e poi assemblarle là. Mio padre fu chiamato a realizzare il progetto. Acquistò un'area a Villanova d'Asti e da imballatore e trasportatore divenne anche spedizioniere. L'azienda fu chiamata Villanova, in omaggio alla località. Dalla stazione cominciarono a partire lunghi treni muniti di Gps».
A che servono i navigatori satellitari se i convogli marciano sui binari?
«Ah, lei non ha idea dei pasticci che avvengono con i treni merci. Nelle stazioni magari ti staccano un vagone per agganciarne un altro che non c'entra nulla con la destinazione. Alla fine finisce che te lo perdi. Con il Gps non accade più, riusciamo sempre a ritrovarlo».
È di questo che s'è occupato appena entrato in azienda?
«No. Fui mandato alla Argol, un ramo del gruppo che si occupava d'imballaggi in legno per Fiat e altri tre o quattro clienti. Solo che non li voleva più nessuno: la Montedison li pretendeva in plastica ed era cominciata l'era dei container. La materia prima, il pioppo, costava troppo. Mio padre fu spicciativo: La chiudiamo. Lo convinsi a lasciarmela fino a Natale. Andai a cercarmi il legname in Portogallo, in Francia, in Calabria. Strinsi accordi per piantare boschi e segherie, dopodiché compravo il prodotto finito. Da 20.000 metri cubi di legname passai a 1 milione. Lei consideri che un autotreno porta 30-40 metri cubi. A quel punto mi ritrovai con un parco clienti enorme, mentre la Villanova aveva solo la Fiat».
Be', rimaneva tutto in famiglia, no?
«È quello che pensava anche mio padre, mentre io non ero d'accordo, per cui mi tenni la Argol. La sfida successiva fu convincere i clienti ad affidarmi il magazzino. Porte sbarrate. Perché avrebbero dovuto consegnare a me l'intera filiera? Finché i capi del Nuovo Pignone di Firenze, stremati dalla mia insistenza, non acconsentirono a tentare l'esperimento alla Smit textile di Schio, una fabbrica di telai per l'industria tessile. L'idea ebbe talmente successo che in breve mi fu ceduta la raccolta del latte anche per il Pignone, oggi di proprietà della General Electric. Il risultato finale è la piattaforma unica per la divisione Oil & gas, leader mondiale nella produzione di impianti per trivellazioni petrolifere e pipeline, che abbiamo appena inaugurato a Livorno, dove da 100.000 metri quadrati siamo passati a 350.000».
Ha azzeccato la formula giusta.
«La filiera era spezzettata fra Usa, India e Italia. Ora è stata concentrata qui».
E suo padre che ne dice?
«Non ha fatto in tempo a vederla. È morto nel 2010. Solo allora ho deciso che Villanova e Argol andavano riunite e identificate con un nuovo marchio, Bcube».
Qual è l'oggetto più strano che le è capitato di trasportare?
«Si trattava di essere viventi, non di un oggetto: rarissimi pesciolini tropicali destinati agli acquari. Quando venne in visita in Italia, trasportammo anche da Tripoli a Roma i cavalli del colonnello Gheddafi, pace all'anima sua, e da Roma a Tripoli alcune bufale campane, perché s'era innamorato della mozzarella e voleva farsela produrre in Libia».
E il più piccolo?
«Un diamante. Insieme con molti altri gioielli per un'esposizione a Las Vegas».
Era anche l'oggetto più costoso?
«No, se considera che abbiamo portato in Italia La ragazza con l'orecchino di perla di Jan Vermeer esposta a Bologna, spedito in Giappone i reperti del Museo Egizio di Torino, curato lo stoccaggio in caveau e il trasporto di tutti i capolavori della mostra Tutankhamon Caravaggio Van Gogh in corso a Vicenza».
E il più ingombrante?
«Un jumbo reduce da un incidente. Non è stato facile individuare sulla rete stradale europea il percorso di un trasporto eccezionale di quelle dimensioni».
A voi non capitano mai incidenti?
«Una bara con la salma di un arabo finì per sbaglio in Israele. Ma non per colpa nostra: fu un disservizio dovuto a uno sciopero del personale aeroportuale».
Costa tanto il trasporto merci?
«Dipende dalle merci, dalle destinazioni, dall'urgenza della spedizione, dalle dimensioni, dal vettore prescelto. L'aereo è ovviamente più caro della nave».
Pensavo a una tonnellata di roba che da Genova viene spedita a New York.
«Un container di quel peso, via nave, può costare all'incirca 1.500 euro».
Tanti anni fa intervistai per Capital l'altoatesino Eduard Baumgartner, padre-padrone di Fercam e Gondrand, che mi svelò il segreto del suo successo: «Qui dentro ognuno è venditore, autista, meccanico, impiegato e fattorino». È questa la ricetta?
«Credo di più nella specializzazione. Ma lo spirito di adattamento resta una delle principali virtù umane».
Qual è il problema principale dei trasporti in Italia?
«Ma c'è un problema dei trasporti in Italia?».
Non so, me lo dica lei.
«Per carità, ogni cosa è perfettibile. Forse non ci rendiamo conto che, per gli stranieri che vengono a insediarsi nel nostro Paese, la logistica è tutto. Le multinazionali vedono il Belpaese come noi vediamo l'Egitto quando andiamo a investirci, e questo ci danneggia».
Perché con 33 euro uso le autostrade svizzere per un anno, mentre in Italia con la stessa somma vado sulla A1 da Milano a Orvieto?
«Ecco, questo è senz'altro un problema dei trasporti. Certi asset di una nazione dovrebbero rimanere allo Stato, non finire in mano ai privati».
Con il petrolio sotto i 50 dollari al barile starà facendo affari d'oro.
«Non vedo ricadute immediate. Se qualcuno ha risparmiato, s'è tenuto i soldi».
Ma la ripresa arriva o no?
«Per ora noi non la vediamo».
È fiducioso nel futuro dell'Italia?
«Sì. Sono obbligato a esserlo».
(743. Continua)
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