La Rossa su cui morì Ascari torna sulla pista del dramma

Di nuovo nella fatale Monza la "750" che costò la vita all'ultimo campione del mondo italiano di Formula 1

La Rossa su cui morì Ascari torna sulla pista del dramma

E poi fu subito il silenzio. Gelido. Color del ghiaccio. E poi fu straziante dolore nel guardare il corpo senza vita del grande campione steso a una manciata di metri dal relitto fumante. Alberto Ascari se ne andò così, giovedì 26 maggio 1955, poco dopo le tredici, a Monza, la sua Monza. Morì senza un lamento, senza neppure il diritto all'urlo strozzato di chi abbandona la vita troppo presto. Non ne ebbe il tempo. L'auto che impazzisce in pieno curvone e scarta a sinistra, la disperazione disegnata sull'asfalto dalle gomme, un errore, un guasto, persino, forse, uno sconosciuto pazzo o incosciente o distratto che ormai si sarà portato nella tomba il segreto e il rimorso immenso di aver attraversato la pista mentre sopraggiungeva il grande campione. Non si sa, non si saprà mai. Ascari se ne andò in silenzio, la sua Ferrari, che non era sua, no. Perché la Rossa si trasformò in un rottame solo dopo un lancinante frastuono di lamiere che s'accartocciavano tra asfalto, terra e cespugli, dando il via alla tragica e romantica leggenda di questo figlio di Milano, il nostro ultimo campione del mondo di F1.

E poi lei è tornata. Ieri l'altro. Quasi in silenzio, quasi nessuno dovesse accorgersi di questa resurrezione meccanica e di lei vedova vestita di rosso che nei giorni in cui si commemorano i nostri morti è tornata lì, sul luogo del delitto, nel circuito del parco. Non c'è dubbio, lo dice la carta d'identità, è proprio lei, non una sorella o clone o chissà cosa, telaio numero 0562. All'epoca era un bolide da sogno, motore tremila, carrozzeria Scaglietti su disegno di Dino Ferrari, il primo e sfortunato figlio del Drake, portato via da un male incurabile. Ferrari 750 Monza la denominazione della vettura, come se tutto, già allora, fosse scritto. Monza perché lì aveva debuttato l'anno prima, Monza perché lì aveva subito vinto con Umberto Maglioli e Mike Hawthorn, Monza perché, forse, il dio delle corse sapeva ogni cosa, sapeva che proprio sul circuito del parco tutto sarebbe successo. E ora, lì, in silenzio, nel museo allestito in occasione della grande festa annuale del Cavallino, le finali Ferrari, lì resterà fino a domani. A poche centinaia di metri da dove, oltre sessant'anni fa, aveva terminato la sua corsa urlando tra asfalto, terra e cespugli.

Quella mattina, Ascari era a casa, nel suo appartamento di Milano. Quella mattina si stava ancora riprendendo dal terribile e premonitore volo di Monte Carlo, quattro giorni prima, l'olio lasciato da una Mercedes all'uscita del tunnel, la sbandata, la sua Lancia che si tuffa nel mare e lui ripescato incolume, solo una gran botta al setto nasale. Forse per questo, per affrontare a muso duro gli effetti dell'incidente, va a trovare gli amici ferraristi Eugenio Castellotti e Gigi Villoresi che stanno provando la 750 a Monza. Dovrebbero solo pranzare insieme e invece insiste per guidare un'auto non sua e, scaramantico e superstizioso più di tutti, lui che non lasciava mai il casco azzurro e la logora maglia dello stesso colore, indossa l'elmetto di Castellotti e si mette al volante in giacca e cravatta.

E poi succede. Accade tutto trent'anni esatti dopo la morte di suo padre Antonio, grande pilota degli anni Venti, ucciso in pista anche lui; accade percorrendo una curva veloce a sinistra come il genitore; accade a 36 anni, stessa età per padre e figlio; accade in un anno che finisce con cinque, era il 1925 quando morì Antonio, è il 1955 adesso, e padre e figlio erano entrambi nati in un anno che finiva per 8, il 1888 per Antonio e il 1918 per Alberto. Accade odiando e temendo certi numeri, su tutti il 13, accade dopo le 13, sapendo che i nomi Antonio Ascari e Alberto Ascari sono composti di 13 lettere, e accade il giorno 26 che del numero maledetto è il doppio.

Soprattutto, succede tutto dopo che l'amico Villoresi aveva provato in ogni modo a convincerlo di non guidare quel giorno, ben sapendo quanto Alberto fosse superstizioso, quanto amasse avere sempre con sé casco e tuta, e quanto gli aveva confidato nei primi mesi del 1955. «Sai», gli aveva detto, «sono trent'anni che mio padre non c'è più, io quest'anno non lo passo...».

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