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Saipem, il giudice umilia il pm: "Scaroni non è un corruttore"

Smontato il teorema accusatorio di De Pasquale. Nelle motivazioni del proscioglimento dell'ex ad Eni si legge: "Tangenti in Algeria? Non è provato nulla"

Saipem, il giudice umilia il pm: "Scaroni non è un corruttore"

«Questi elementi non sono in grado di provare alcunché». È raro leggere nella sentenza di un giudice la demolizione impietosa delle accuse lanciate da un pm contro un imputato quale nelle settanta pagine che chiudono l'inchiesta per corruzione contro l'Eni e il suo ex amministratore delegato Paolo Scaroni. A Fabio De Pasquale, il sostituto procuratore che ha incriminato il «cane a sei zampe» e il suo capo per corruzione internazionale e che ha cercato di portarli sul banco degli imputati, il giudice Alessandra Clemente riserva valutazioni lapidarie: «Gli elementi indicati non sono sufficienti, spesso anche per la loro contraddittorietà, a provare neppure per via induttiva» l'esistenza di un accordo di vertice tra Eni e governo algerino per conquistare a suon di tangenti le forniture di petrolio e gas, piatto forte del teorema di De Pasquale. E al pm il giudice riserva anche l'accusa di avere cercato di strappare a due testimoni rivelazioni contro Scaroni e l'Eni spacciando come prove certe quelle che erano sue ipotesi: «La valutazione delle risposte non può prescindere dalle modalità con le quali le domande sono state fatte. I pm non ha chiesto di riportare fatti dei quali gli interlocutori avrebbero potuto essere testimoni ma ha cercato di reperire nelle risposte argomenti di supporto alla tesi accusatoria, rappresentando situazioni e circostanze disarticolate tra loro, non specifiche e assolutamente decontestualizzate. La versione parziale o comunque limitata rappresentata dal pm, se non era in grado di condizionare i dichiaranti, quanto meno suggeriva risposte generiche e generali. Le domande poi a volte erano basate su presupposti ritenuti provati ma che invero erano oggetto di indagine».

Solo così, scrive il gip, la Procura ha potuto sostenere che Scaroni avesse incontrato all'hotel George V di Parigi il ministro dell'Energia algerino Chekib Khelil per trattare la colossale tangente, 198 milioni di euro. Quelli che per il pm erano summit criminali, per il giudice erano «incontri che possono essere considerati quali occasioni prese al volo per perseguire gli scopi aziendali, del tutto usuali nel loro ambiente». Si trattava di «incontri programmati in agenda, privi di quell'alone di mistero dal quale dedurre per le modalità, i tempi e i luoghi la sussistenza di un reato».

Per raggiungere questa conclusione, il giudice Clemente ha parole severe anche contro Stefano Cao, ex direttore generale di Eni, e soprattutto Claudio Descalzi, successore di Scaroni alla guida del colosso di Stato, che nei loro interrogatori avevano parlato di «anomalie» degli incontri «informali» di Scaroni. Le dichiarazioni dei due sono definite dal pm «macigni» contro l'Eni. Ma le carte per il giudice dimostrano che Cao e Descalzi mentono, perché degli incontri informali hanno beneficiato anche loro: «Anche Descalzi pur avendo dichiarato di non ricordare il nome di Bedjaoui (il segretario del ministro algerino, ndr ) né di averlo mai conosciuto è stato protagonista di uno scambio di mail con Tali dal quale emerge tutt'altro (...) pure Descalzi è caduto in contraddizione sulla questione degli incontri informali».

La Procura della Repubblica, ovviamente, si prepara a ricorrere in Cassazione per ribaltare la decisione.

Ma intanto a restare scritta è la valutazione con cui la Clemente chiude la pratica: «Il coinvolgimento di Eni certo non può essere fondato sulla petizione di principio che permea in qualche modo tutto il processo: in Algeria si poteva lavorare e fare affari solo accettando queste modalità corruttive e quindi anche l'Eni deve avere fatto cosi per ottenere quanto ha ottenuto».

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