Economia

Senza laureati il Paese non può crescere

Senza laureati il Paese non può crescere

I dati sul numero dei laureati in Italia, che ci collocano al penultimo posto in Europa (poco al di sopra della Romania), devono stimolare qualche riflessione.

Innanzi tutto va evidenziato che una società che non cresce ha meno bisogno di competenze avanzate. Nel passato è stato lo sviluppo economico che ha indotto le famiglie ad avviare i giovani verso quei corsi universitari che sono in grado di offrire migliori opportunità.

Bisogna allora prendere atto che non cresciamo perché abbiamo lavoratori meno formati che altrove, ma è vero anche l'opposto: dato che soltanto un'economia dinamica spinge a impegnarsi in percorsi di studio impegnativi. Le liberalizzazioni rinviate e i mancati tagli delle imposte hanno intralciato la crescita, togliendo pure molti incentivi a quanti avrebbero voluto prolungare gli studi anche dopo le scuole superiori.

Per giunta, come varie ricerche hanno evidenziato, specialmente nel Mezzogiorno le aule universitarie troppo spesso sono diventate una sorta di «parcheggio» in vista di prospettive più interessanti. Al Sud, infatti, si deve fare i conti con un elevato numero di iscritti a cui però non corrisponde un corrispondente numero di giovani che arrivano a conseguire un titolo. Non è un caso che sia lombardo il 14,5% dei laureati ma solo il 12,8% degli studenti, mentre in Campania troviamo il 10,8% dei laureati nonostante vi sia il 12,5% degli iscritti.

Una società con pochi laureati, per giunta, è anche una società in cui l'ascensore sociale non funziona come dovrebbe. Per quanti vengono da famiglie povere, lo studio è uno dei principali strumenti di successo: quanti vengono da una famiglia modesta e poi si laureano in ingegneria o in medicina hanno l'opportunità di accedere alla classe dirigente. Ma se a laurearsi sono in pochi, è chiaro che non si assiste a un ricambio delle élite, né a una valorizzazione di tante potenzialità, che restano inespresse.

Nel nostro Paese c'è allora l'esigenza di aumentare il numero dei laureati e, soprattutto, far crescere la cultura diffusa, le competenze dei lavoratori, la qualità degli studi. E in questo senso non c'è alcun dubbio che una parte delle colpe è da attribuire alle istituzioni accademiche.

Per tutta una serie di ragioni, legate strettamente alla nostra tradizione intellettuale, in Italia i corsi di studio universitari restano molto più focalizzati sul sapere teorico (e astratto) che non su quello pratico (e concreto). Nel mondo pochi studenti di medicina restano tanto sui libri quanto gli italiani, ma al tempo stesso è vero che da noi non è facile durante gli anni di studio avere la possibilità di frequentare i reparti e fare esperienza «sul campo».

Questo si deve anche al fatto che la nostra università è quasi interamente statale e anche gli atenei privati sono largamente controllati dai poteri pubblici. Abbiamo allora bisogno di aprire al mercato e alla sperimentazione pure questo ambito, dove regna la logica del «posto fisso».

Con tutte le conseguenze che ben conosciamo.

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