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Ma la settimana della moda è sempre più corta

Le sfilate meneghine soffrono sempre di più la concorrenza di Parigi. Ma non si può dire...

Ma la settimana della moda è sempre più corta

Vi diranno che è stata la miglior settimana della moda di sempre, che è andato tutto benissimo e tutti sono molto soddisfatti perché queste benedette sfilate milanesi alimentano un settore che è la seconda voce attiva della bilancia dei pagamenti nazionale. Lo diranno anche a noi che c'eravamo e non possiamo tacere: ce la siamo cavati anche stavolta per miracolo.

La settimana della moda di Milano dura in realtà tre giorni pieni e due mezze giornate. A questo giro sono riusciti a salvare la domenica pomeriggio solo perché Dolce&Gabbana che non sono soci di Camera della Moda e non vogliono nemmeno che le loro sfilate vengano citate tra gli appuntamenti in calendario, hanno offerto una cena per l'inaugurazione della loro boutique al posto di quella chiusa da Ralph Lauren al 4 di via Montenapoleone. Tra i 420 invitati, «attovagliati» per la cronaca sulla strada più importante della città come succede nei paesini siciliani d'estate, c'erano personaggi come Anna Wintour di Vogue America, Glenda Bailey di Harper's Bazaar e Imran Amed, fondatore e amministratore delegato di BoF (The Business of Fashion) il sito più cliccato dalla finanza modaiola. Gli addetti ai lavori spiegano che di solito questi e altri alti papaveri del giornalismo di moda internazionale partono prima perché inglesi e francesi vogliono stare un giorno in redazione prima di Parigi mentre agli americani Milano proprio non piace: si mangia bene, ma nell'ambiente son tutti a dieta per cui chissenefrega. La verità è un'altra: «Gucci e Prada devono alternarsi ad aprire e chiudere la fashion week», dicono in coro gli esperti aggiungendo che accanto ai grandi marchi che dettano le linee guida della stagione e investono un sacco di soldi in pubblicità, ci vogliono anche un paio di nomi interessanti tipo N.21, Marco De Vincenzo o Fausto Puglisi. Niente da fare. Marco Bizzarri presidente e ceo di Gucci ci ha detto che non si sogna neanche: prima tornino in Italia i brand che sfilano all'estero. Da Prada sostengono invece che la signora (così chiamano tutti Miuccia) ha bisogno del maggior lasso di tempo possibile tra la sfilata della linea che porta il suo cognome e quella di Miu Miu che infatti sarà l'ultima di Parigi, il prossimo 5 ottobre. Di tornare a Milano non se ne parla proprio perché nella Ville Lumière quella che era una seconda linea ha assunto una sua precisa identità e poi ci sono tanti altri che sfilano lì, un vero e proprio alfabeto di italiani che a 'sto giro va dalla A di Armani (inteso come Emporio) alla solita V di Valentino. Insomma non se ne esce ed è un vero disastro, ma a dirlo ci fai pure brutta figura perché abbiamo avuto Renzi a inaugurare questa settimana di tre giorni e due mezze giornate da cardiopalma e con il premier c'era il ministro allo sviluppo economico Carlo Calenda, il vice ministro Ivan Scalfarotto e il presidente dell'Ice Michele Scannavini. Quest'ultimo ha finanziato per il 75% la mostra «Crafting the Future» a cura di Franca Sozzani, direttore di Vogue Italia, la donna più potente della nostra moda. Ad aiutarla in questa impresa costata un milione e 190mila euro di cui circa 300mila a carico di Cnmi, tutto il resto come si suol dire di tasca nostra o meglio dell'Ice, c'è stata sua nipote Sara Maino che è capo redattore di Vogue Italia, una vera esperta nello scovare nuovi talenti creativi, l'anima del concorso Who's on Next per cui il governo ha seriamente sovvenzionato le sfilate di Roma altrimenti destinate all'estinzione. Infine il direttore artistico della mostra che per inciso non dura nemmeno un mese (dal 26 settembre al 12 ottobre al Mudec di Milano) è Luca Stoppini art director di Vogue. Un bel bingo per le edizioni Condè Nast la cui pierre, Emanuela Schmeidler, ha pure organizzato il pranzo. Pare che Renzi all'ultimo minuto abbia evitato di presentare un documento programmatico sull'unificazione delle varie fiere della moda di Milano per far ritornare la città «the place to be» o «il meglio fico del bigoncio» come dicono in Toscana. Le ragioni di questa autocensura non sono note ma s'immaginano.

Quel che veramente non si capisce è come mai non siano stati invitati al pranzo anche gli artigiani e i giovani creativi della mostra. In fondo erano lì a loro spese perché tutti quei soldi non sono andati nelle loro tasche.

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