Roma - Il sistema degli studi di settore adottato dall'Agenzia delle Entrate è per il diritto comunitario del tutto legittimo a patto che il contribuente sia sempre messo nelle condizioni di far valere le sue ragioni e di difendersi nelle sedi opportune. Lo stabilisce una sentenza della Corte di Giustizia europea riguardante una controversia sorta nel 2014 tra il fisco italiano e una signora, F.S.F., sulla dichiarazione dei redditi di quest'ultima relativa all'anno 2010. La donna aveva dichiarato un reddito di 10.574 euro, ma l'Agenzia l'ha più che raddoppiato, a 22.381 euro, correzione che ha comportato un aumento delle imposte dovute, tra cui l'Iva. Il ricalcolo del reddito della donna è stato fatto sulla base appunto degli studi di settore, introdotti fin nel '93 e che calcolano il reddito presunto del contribuente.
Il sistema porta a raggruppare in un unico settore tutti i professionisti che esercitano la medesima attività. E così le entrate della contribuente per l'anno 2010 sono state ricalcolate in modo da tenere conto solamente del presunto fatturato corrispondente alle attività. Per contro, non è stata attribuita alcuna importanza al numero effettivo delle prestazioni effettuate dalla contribuente. La signora ha impugnato la decisione dell'Agenzia delle Entrate davanti alla Commissione tributaria provinciale di Reggio Calabria, lamentando, tra l'altro, l'illegittimità del sistema degli «studi di settore». La Commissione tributaria si è quindi rivolta alla Corte di Giustizia chiedendo, in sostanza, se la normativa sugli studi di settore sia conforme al diritto comunitario. La direttiva Ue sull'Iva, per i giudici di Lussemburgo, non esclude, in linea di principio, la normativa nazionale che, «per prevenire l'evasione fiscale, determini l'importo dell'Iva dovuta da un cittadino sulla base del volume d'affari complessivo, accertato induttivamente sulla scorta di studi settoriali». Tuttavia, il contribuente, come recita la sentenza, «deve poter contestare, ai fini della valutazione della propria situazione, tanto l'esattezza quanto la pertinenza dello studio di settore». Per la Corte, il cittadino dev'essere in grado di far valere le circostanze per le quali il volume d'affari dichiarato, benché inferiore a quello determinato col sistema induttivo, corrisponda alla realtà della propria attività nel periodo in questione.
Se tutto ciò comporta per il cittadino l'onere di dover eventualmente provare «fatti negativi», per i giudici di Lussemburgo il principio di proporzionalità esige che il livello di prova richiesto non sia «eccessivamente elevato». RRo
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