«I russi beccàti a festeggiare Trump», così il titolo d'apertura del Washington Post: «Russians caught cheering Trump» su un articolo in cui si riferisce, da fonti spionistiche dalle sviluppate orecchie elettroniche che hanno intercettato, nel giorno della vittoria del tycoon grida di giubilo moscovita, tappi di champagne (probabilmente il dolciastro «Mum») e insomma una vera festa. Trump ha raggiunto il Senato per dire che bisogna prima di tutto fare piazza pulita di tutte le 17 agenzie spionistiche e di intelligence analitica, perché «sono tutte politicizzate e tirano l'acqua al mulino del loro referente politico», cosa che ha fatto andare in bestia molti severi analisti dall'aria sacerdotale (l'analista non è una spia, ma uno che sa leggere in modo diverso sia le fonti «aperte» che quelle segrete, secondo il proprio grado di clearance, cioè di accesso ai documenti) e l'ex capo della Cia, il vecchio R. James Woolsey che si è dimesso dicendo che non può servire sotto ogni bandiera.
La questione dello spionaggio e delle fonti degli scandali è una materia rovente negli Stati Uniti e si presenta in maniera molto diversa da quella italiana, dove le due agenzie per l'interno e per l'estero sono collegate con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio il quale ne riferisce al capo del governo. Le agenzie italiane sono costrette per legge a fare il loro lavoro riferendo sempre a palazzo Chigi. Uno degli ultimi uomini che hanno svolto questo lavoro è stato l'attuale capo dello Stato Sergio Mattarella che ebbi l'onore di interrogare come presidente di una commissione d'inchiesta per sapere come fossero stati usati i dossier sulle spie sovietiche trasmessi dagli inglesi. Tutta un'altra storia. In America le agenzie sono formalmente autonome e rispondono in genere alle commissioni del Senato che il potere di spellare vivi i dirigenti e tutti i poteri di promozione e rimozione.
Ecco dunque che apprendiamo che il presidente Obama ha ricevuto dalle agenzie un dossier ricchissimo con le intercettazioni degli ufficiali e politici russi che si trasmettono gioiose congratulazioni per aver fatto vincere Trump. Trump ha mantenuto un'aria svagata recitando la parte di chi ne sa di più di chi lo sta interrogando e seguita a ripetere che i russi non hanno hackerato un bel niente e che tutte le informazioni segrete o riservate sulle email di Hillary Clinton provengono da altri noti Hacker che lavorano in proprio. Lo dice, come al solito, su twitter perché in mente ha una sola precisa idea quanto a spie, analisti e uomini di mano: cacciare tutti e ricominciare con gente fidata. Si può solo immaginare quale ondata di paura e anche di desiderio di stare a galla a tutti i costi accompagni una tale manifesta intenzione. Intorno al neo presidente si è formato uno sciame di consiglieri personali, gli aides, che per mestiere gli traducono i messaggi in codice e confortano Trump nella sua idea di azzerare per primo il posto di Direttore dello spionaggio e controspionaggio, perché secondo lui tutti quelli che fanno parte del giro sono già al soldo dei politici che scommettevano sulla Clinton. Ormai Trump prende in giro apertamente gli analisti accusandoli di spargere artatamente la voce secondo cui dietro le fughe di notizie c'è sempre e soltanto la Russia.
Anche a Langley in Virginia, nella mitica sede della Central Intelligence Agency vista in tanti film, si trema. Il terremoto è in arrivo e riguarderà agenti sul campo, operativi, dirigenti sedentari e con le mani in pasta con la politica. La sua ricetta per la Cia è mandateli in giro a lavorare, invece di fargli produrre tresche. Tutto ruota intorno alla voragine delle email di Hillary sulla quale si è fatta luce durante la campagna elettorale. E Trump osserva sarcastico: «Julian Assange nega di avere avuto dai russi quelle email che potrebbero essere state trafugate da chiunque lavorasse con la Clinton, a cominciare dal suo manager John Podesta». Trump vede la natura politica di questa storia di hacker russi: è un tentativo di delegittimarlo, di farlo passare per un burattino nelle mani di Putin. Per lui, e come dargli torto, è un caso personale e per scrollarsi di dosso la fama di protegé dei russi, deve fare qualcosa di visibile.
Intanto, far piazza pulita di tutti i dirigenti in carica vissuti nell'era obamiana e clintoniana. Poi, dare segnali meno acquiescenti al leader russo che chiede di fermare la corsa agli armamenti: «Io fermare la corsa agli armamenti? Non ci penso per niente. La corsa abbia inizio e io voglio vincerla».
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