Un popolo di samurai che sfida la paura

Qual è la foto dove si vede di più il terremoto, noi che vogliamo vedere sempre di tutto e di più? Ogni volta che una catastrofe naturale si abbatte da qualche parte corriamo a cercare i filmati su internet perché c’è qualcosa di emozionante nel vedere le tragedie che non ci riguardano. Non è un sentimento nuovo di noi moderni. Nel Settecento l’impotenza dell’uomo di fronte alla forza della natura era perfino un genere artistico molto in voga, si chiamava «il sublime». Non c’era Youtube ma rinomati pittori come Caspar David Friedrich e William Turner che dipingevano il sublime. Il senso era: la piccolezza dell’uomo di fronte alla potenza e all’indifferenza della natura.
Tuttavia oggi siamo talmente abituati a vedere le metropoli devastate da terremoti, inondazioni, attentati, asteroidi e alieni che le immagini reali ci appaiono poco realistiche. Gli effetti speciali hanno superato da tempo la realtà, motivo per cui le immagini dell’uomo sulla luna non reggono il confronto neppure con la luna di «Spazio 1999». Come l’11 settembre, la mia prima reazione di fronte ai due aerei che si schiantavano sulle Torri Gemelle fu: Spielberg lo avrebbe fatto meglio. Molto più impressionante, viceversa, fu ascoltare i messaggi dei passeggeri lasciati nelle segreterie telefoniche. Non si vedeva niente ma si sentiva tutto.
Così anche ieri, a Tokyo, gli autobus e i Tir venivano spazzati via come se fossero scatole di latta, a Sendai si vedono le auto trascinate come modellini in fiumi di fango, e però un film di Emmerich è più realistico. Tra l’altro, a differenza dei terremoti italiani, ognuno di noi coltiva la non infondata idea che i giapponesi siano in fondo abituati, e non solo ai terremoti. È una questione di cultura e mentalità: se pure emergesse dal mare Godzilla, un giapponese non si stupirebbe. Non per altro ci sono volute due atomiche durante la Seconda Guerra Mondiale per convincere i giapponesi ad arrendersi, alla prima non si erano sorpresi più di tanto.
Ecco perché l’immagine più forte, più vicina alla tragedia della forza devastante del terremoto, mi sembra la foto del primo ministro giapponese Naoto Kan al momento della prima scossa. Il terremoto, la percezione del terremoto, deve essere un attimo: da un secondo all’altro tutto ciò che conta è fuggire. È il famoso attimo del «si salvi chi può». Un attimo prima il mondo si regge ancora su ordine, un ordine fittizio ma pur sempre una parvenza di ordine, una routine, delle piccole certezze: arrivare in un ufficio, accompagnare i propri figli a scuola, telefonare a una moglie o a un’amante, pensare a dove andare a cena. O aspettare un autobus giocando con l’iPhone, come stavo facendo io al momento del terremoto, benché al sicuro, a 9854 chilometri di distanza da Tokyo, pensando piuttosto a come raggiungere l’isola otto del gioco Tiny Wings. Un attimo dopo, non appena la terra inizia a tremare, l’intera vita viene ridotta alla banalità di un bisogno primario: scappare.
Nella foto Naoto Kan non scappa. Nella sua espressione, nella posizione del suo corpo, si legge la paura trattenuta di quello che sta succedendo, la paura dell’inatteso. C’è anche la tenerezza di non potersi lasciare andare, il contegno forzato di fronte alle telecamere. È come se i due attimi, il prima e il dopo, fossero fusi insieme e lottasero l’uno contro l’altro per ingannarsi a vicenda. Il primo ministro si regge forte ai braccioli e si guarda timoroso intorno. Le braccia e le gambe sono tese, quasi a darsi lo slancio per scattare in piedi e al contempo, per uno sforzo di volontà contrario all’istinto, i muscoli si tendono sotto i vestiti per tenere il corpo inchiodato alla sedia in una posa goffa, di uomo che ha paura e non deve avere paura.

La volontà dell’apparenza rivela l’essenza dell’uomo di fronte all’incontrollabile. I telegiornali dopo commenteranno che il primo ministro non ha lasciato l’aula finché la scossa non ha avuto termine. Ma appunto è quella la foto più sublime.

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