Milano - Un processo che ha incarnato uno scontro tra poteri degno di una democrazia matura, in cui le tante esigenze di una collettività - la giustizia, la sicurezza, l’eguaglianza, il diritto a sapere - hanno alla fine trovato una mediazione ragionevole. Alle 17 di ieri la Corte d’appello di Milano pronuncia la sentenza che chiude il caso del rapimento di Abu Omar, l’imam estremista della moschea milanese di via Quaranta, sequestrato il 17 febbraio 2003 da un commando della Cia nel capoluogo lombardo e consegnato al governo egiziano. La corte sancisce la verità storica di quello che accadde: la responsabilità dei servizi segreti americani, che in barba alle leggi italiane e ai doveri di lealtà verso un paese alleato, effettuarono la rendition. Ventitrè agenti segreti Usa vengono condannati: e a loro la Corte nega anche le attenuanti generiche, inasprendo le pene inflitte in primo grado. Invece sul ruolo dei nostri servizi segreti in questa vicenda cala il segreto di Stato, come deciso dai governi di Romano Prodi e Silvio Berlusconi, e confermato poi dalla Corte Costituzionale e dalla sentenza di primo grado. Tutti gli 007 italiani vengono dichiarati «non giudicabili» e prosciolti.
Su quali siano state le risposte che i vertici del Sismi, l’attuale Aise, diedero alla richiesta americana di attuare anche in Italia la pratica delle rendition (inaugurata da George W. Bush e confermata da Barack Obama) la sentenza lascia alle parti in causa la libertà di pensarla come vogliono. Gli uomini del Sismi - con in testa l’ex direttore Nicolò Pollari e il capo del controspionaggio Marco Mancini - escono indenni dal processo, e rivendicando la loro innocenza: se non fosse stato imposto il segreto di Stato, dicono, avremmo potuto dimostrare di avere sempre opposto un rifiuto netto alle proposte della Cia di far sparire Abu Omar. La Procura della Repubblica - in primo luogo il procuratore aggiunto Armando Spataro, che dell’indagine sulla scomparsa di Abu Omar fu l’autore insieme al collega Ferdinando Pomarici - può legittimamente continuare a ritenere che sotto il velo del segreto di Stato sia stata nascosta la sostanziale accondiscendenza e complicità della nostra intelligence militare con gli uomini di Oltreoceano. In entrambi i casi, il fatto storico del sequestro da parte della Cia è, a questo punto, accertato oltre ogni ragionevole dubbio. E l’Italia diventa il primo paese dove un’intera struttura dei servizi segreti americani viene processata e condannata.
La scampano Jeff Castelli, capocentro Cia a Roma all’epoca del rapimento, e i suoi collaboratori Betty Madeiro e Ralph Russomando: erano stati assolti in primo grado, e il processo d’appello viene azzerato per uno svarione nelle notifiche. Piovono anni di galera su tutti gli altri: a partire da Bob Lady, capocentro a Milano, che si vede inasprire la pena a nove anni. E sette anni a testa vengono inflitti a tutti gli agenti che, in un modo o nell’altro, collaborarono a prelevare l’estremista, a caricarlo su un furgone, a trasportarlo alla base di Aviano e da lì a Ramstein, in Germania, e poi al Cairo. Anni di carcere che difficilmente verranno mai scontati, perché tutti gli 007 a stelle e strisce hanno lasciato da tempo l’Italia e si guarderanno bene dal rimetterci piede. La Procura di Milano, a dire il vero, aveva chiesto la loro estradizione. Ma il ministro della Giustizia dell’epoca, Roberto Castelli, aveva bloccato la pratica. E i suoi successori, Clemente Mastella e Luigi Scotti (governo Prodi) e Angelino Alfano (governo Berlusconi) non hanno nemmeno degnato di una risposta i pm meneghini. Più concreto si annuncia il risarcimento di un milione e mezzo di euro riconosciuto anche dai giudici d’appello a favore di Abu Omar e della moglie, che ora potrebbero chiedere il pignoramento dei beni delle sedi diplomatiche americane in Italia.
La lunga e complessa partita, insomma, si chiude così (fermo restando che un ultimo controllo di legittimità toccherà, verosimilmente alla Cassazione). Colpevoli gli 007 americani, non processabili gli italiani. La differenza di trattamento è facilmente spiegabile. A carico della «squadra» di rapitori americani pesava una mole impressionante di tracce lasciate prima, durante e dopo il sequestro: una operazione realizzata con quella che lo stesso Lady, in una intervista al Giornale finita agli atti del processo, definì come «una sorprendente mancanza di professionalità». Mentre per incastrare gli uomini del Sismi sarebbe stato indispensabile andare a scavare in quell’universo di relazioni sotterranee che costituiscono il tessuto connettivo dei rapporti nel mondo delle spie. Avrebbe significato raccontare - in aula e al mondo - come funzionano i nostri servizi segeti, e quali sono i loro rapporti con l’intelligence dei nostri alleati.
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