Se Romano Prodi va a casa, lavremo scampata bella. Se vince, è una iattura. Il suo passato parla per lui. Ecco un promemoria su questo astuto balbettante, che tocca agli elettori mettere a tacere.
IL DC
Democristiano di terza fila finché cè stata la Dc, Romano era comandato a ricoprire cariche vacanti per conto del partito. A imporlo è sempre stato Nino Andreatta, uomo della sinistra Dc. Da lui è stato messo in cattedra; spinto, tramite Ciriaco De Mita, al vertice dellIri; cavato dal cilindro nel 95 per opporlo a Silvio Berlusconi. Andreatta è fuori gioco dal dicembre 99, per un ictus che ne ha annullato le facoltà. Da allora, gli ex comunisti si sono sostituiti nella mallevadoria. Usano Prodi come un travestimento, per scolorire la tara del passato comunista e governare per interposta persona. Prodi che, se ci fosse ancora la Dc non sarebbe nessuno, si lascia usare dallex Pci, per essere qualcuno.
Nel 98, quando Massimo DAlema con un colpo di mano gli sfilò Palazzo Chigi, Romano andò in un ristorante per consolarsi. Qui vide Gianfranco Rotondi, dc del centrodestra, che gli aveva dato il tormentone accusandolo di prestarsi al gioco degli ex. Romano gli si accostò e disse: «Tu mi dai del comunista. Ora con DAlema vedrai chi sono i comunisti veri». Ergo: Prodi la pensa su DAlema & co., esattamente come il Cav. Cioè che siano «comunisti veri» ma poi, con gagliardo opportunismo, ci va a braccetto.
IL PIATTINO
Della seduta spiritica si sa tutto. Resta la menzogna. Prodi non ha mai detto, né al Parlamento, né al giudice del tribunale, Imposimato (che non glielo perdona), da chi ha saputo di Via Gradoli. Le ipotesi che si fanno sono due: o il suo confidente è un accolito delle Br o un agente del Kgb, lagenzia sovietica che forse ha organizzato il sequestro. Da 28 anni, nasconde il segreto chiave del più truculento delitto politico del dopoguerra italiano. Un tipo simile sarebbe guardato a vista in qualsiasi punto del globo. Da noi, è premier.
PRODI E LA STAMPA
I giornalisti italiani, per ragioni di schieramento, sono sempre stati teneri con Romano. Mai messo spalle al muro, né per la messinscena medianica, né per la svendita del patrimonio Iri. Si spiega: il 90 per cento dei giornali è in mano di industriali che vogliono favori dallo Stato. Prodi li ha fatti, dispostissimo a farne ancora. Il Polo liberale, no.
Appena varcati i confini e insediato alla presidenza dellUe, la stampa estera ha subito dipinto Romano per quel che era. Financial Times: «Un dilettante superprotetto catapultato su una poltrona troppo importante per lui». Times: «Un personaggio... deriso in quasi tutto il Vecchio Continente ma che resta motivo dorgoglio per gli italiani».
Quando però è tornato in patria, gli stranieri hanno cominciato a appoggiarlo contro il Cav. Linetto di Bruxelles, diventa una manna per lItalia. Due ragioni. Da un lato, la proverbiale pigrizia spinge i corrispondenti a scopiazzare i giornali italiani e a fare proprie le idee dominanti. Dallaltro, gli ospiti considerano lItalia una macchietta incomprensibile. Per antica tradizione, auspicano per il nostro Paese ciò che mai vorrebbero per il loro. Appoggiarono prima il fascismo, poi il Pci, considerandoli per noi - e solo per noi - un toccasana. Con la stessa logica stanno con Prodi.
PRODI E LA FIAT
Prodi è stato il Mago Merlino della famiglia Agnelli. Il tifo che in questi mesi ha fatto per lui Luca di Montezemolo, il delfino, è la cartina di tornasole.
Da presidente dellIri, Romano ha dato alla Fiat a prezzi stracciati lAlfa Romeo, regalandole il monopolio dellauto italiana. Per farlo, ha ritirato allultimo una promessa di vendita alla Ford che aveva offerto più soldi e migliori garanzie. Le promesse della Fiat di rilanciare lAlfa, ristrutturarne gli stabilimenti e mantenere loccupazione sono finite nel tombino. Il monopolio ha portato male. Padrona del mercato, la Fiat si è impigrita ed è stata travolta dalla concorrenza in anni di progressi tecnici tumultuosi. Le péste in cui si è trovata sono la conseguenza dellimprovvido dono prodiano. Un effetto collaterale, come la morte per fuoco amico. Una nemesi, per dirla allantica.
Da presidente del Consiglio, tra il 96 e il 98, Romano favorì limpossessamento della Telecom da parte dellIfil di Umberto Agnelli. Ma la tela di Prodi fu poi disfatta da DAlema che, entrato lui a Palazzo Chigi, consegnò i telefoni a Colaninno e alla «cordata padana». Fu il debutto delle nuove ricchezze che si affacciavano. Lanticamera dei furbetti del quartierino che Prodi oggi bolla, pensando al folkloristico Ricucci e tacendo il comunista Consorte, e da cui ha preso spunto il diktat di aumentare le tasse sulle rendite finanziarie. Creati i vampiri, la sinistra vuole ora cavargli i denti. Per quattro gatti del loro allevamento, che troveranno altre e migliori occasioni di guadagno, taglieggia i milioni di risparmiatori rifugiati in Bot, Cct e polizze vita.
Sfumata la Telecom, Romano ha cominciato a rimuginare cosa altro poteva fare per la famiglia di Torino. Pensa e ripensa, gli si è accesa la lampadina della rottamazione. Cambia lauto vecchia con la nuova, e la Fiat ti fa lo sconto. La differenza ce la mette lo Stato coi soldi di tutti. Non contento, un mese prima di uscire di scena nellautunno del 98 (Gazzetta Ufficiale n.251), Prodi decise di dare un ulteriore contributo agli Agnelli: 4.308 miliardi pronta cassa su una non meglio precisata lista di «spese ammissibili». Non chiedetemi cosè, sta di fatto che cè.
PRODI E LINGEGNERE
La buona conoscenza tra Romano e lIng. Carlo De Benedetti, ha in Eugenio Scalfari un padrino deccezione. Negli anni Ottanta, il fondatore di Repubblica, che poi venderà allindustriale la sua creatura intascando per sé 300 miliardi, andava in brodo di giuggiole per lIngegnere. Lo turibolava chiamandolo Cavaliere Bianco delleconomia italiana che, qualsiasi cosa volesse dire, era segno di sconfinata ammirazione. Con queste credenziali, De Benedetti si affacciò da Prodi, che presiedeva lIri, chiedendogli di cedere alla sua Buitoni, lHolding alimentare dellIstituto. La Sme era unaccozzaglia di panettoni, conserve di pomodoro e altre cibarie che lIri aveva negli anni rilevato da privati falliti. Prodi senza chiedere il parere di nessuno, firmò un protocollo di vendita per 497 miliardi. Un affarone, ai confini del regalo. Troppo. Si ribellò Craxi, che era premier, e intervenne il ministro delle Pp.Ss., Darida, che mandò a monte tutto.
Come si è saputo da poco, prima dellIng. si era fatta avanti la multinazionale Heinz. A far sapere a Prodi che era interessata, fu il ministro liberale dellIndustria, Renato Altissimo durante un pranzetto nella foresteria dellIri. Alla proposta, Romano fece una risata e disse: «Non cè nemmeno lontanamente lipotesi di una vendita Sme, che è la cassaforte dellIri. Hai idea del prezzo di una cosa del genere? Stiamo parlando di mille, millecinquecento miliardi». Un mese dopo lincontro, venne fuori che aveva firmato con De Benedetti. Altissimo, prese cappello, andò da Prodi e gli chiese: «Perché a Renato (cioè a lui, ndr) hai detto no e a Carlo, sì?». Romano, sorridendo furbetto, replicò: «Perché Carlo ha un taglietto sul pisello che tu non hai». Era una simpatica allusione al fatto che De Benedetti, in quanto ebreo, fosse circonciso. Il sottinteso è che non si poteva dire no alla fantomatica «lobby ebraica» alla cui esistenza, con alate parole, Prodi mostrava di credere. Se Altissimo gli avesse anche chiesto perché, valutando la Sme 1.500 miliardi in maggio, labbia venduta in giugno per 497, la risposta sarebbe stata oltremodo interessante.
CONCLUSIONE
Quel Prodi che allIri aveva uno strano modo di custodire i beni che gli erano affidati, pretende ora che il voto gli consegni alcuni anni della nostra vita. Dio delle urne, pensaci tu.
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