Professionisti allo sbaraglio

I commentatori più scontati prevedevano che in politica estera l’Italia avrebbe subito acquisito peso e rispetto: arrivavano i professionisti, uscivano dilettanti e impresentabili. Dopo qualche settimana, già molti rimpiangono le gaffe berlusconiane.
Con Romano Prodi non si tratta solo di atteggiamenti sbagliati, di folclore. È la sostanza della sua politica che rischia di provocare danni all’Italia. Quando accetta (anzi si vanta) che quel rudere politico di Jacques Chirac, che ha perfino collezionato dal suo popolo la bocciatura della «sua» costituzione europea, dica: «Bentornati in Europa», non commette solo una gaffe. Accetta di presentarsi come leader di una nazione di serie B. Un atteggiamento da maggiordomo, attento solo a fare contenti gli interlocutori: già visto con Iran e Hamas. Ora si ripete in appuntamenti più importanti. È uno stile che contrassegna anche le scelte ragionevoli.
Quando Prodi spiega che è utile per l’Italia trovare la via del dialogo con gli Stati Uniti anche su questioni controverse come l’Irak, fa una scelta giusta. Ma quando dice che non vuole «irritare gli Stati Uniti», fa un affermazione da maggiordomo. Ed eccita quelli che ritengono che il ruolo da servitore dei grandi sia l’unico possibile per l’Italia. Così su Repubblica Andrea Bonanni che consiglia di acquisire la benevolenza della Germania, appoggiando Berlino nell’ambizione di divenire membro permanente del consiglio di sicurezza dell’Onu: scelta strategicamente contraria agli interessi italiani.
Gli atteggiamenti di Prodi stanno già provocando guasti. Il commissario europeo Joaquin Almunia aveva imparato a rispettarci grazie a Giulio Tremonti, che nel 2001 aveva persino rinunciato a insistere sul buco lasciato dal governo Amato pur di non indebolire Roma con una Bruxelles, che peraltro doveva stare attenta a dare troppe lezioni di fronte ai bilanci allo sbando di Francia e Germania. Invece ora il maggiordomismo di Prodi e soci consentono ad Almunia di trattarci come una scolaretta ignorante che deve rifare i compiti.
E Massimo D’Alema? Il nuovo ministro degli Esteri è ancora condizionato dalle posizioni estremiste prese nei mesi scorsi, per esempio su Israele, per coprire i guai provocatogli dal caso Unipol. E così finisce per tenere toni propagandistici che mal si sposano con il ruolo di capo della diplomazia. In questo senso le accuse su accordi segreti di Silvio Berlusconi con Washington. Ma anche qualche accenno di troppo al caso curdo nei messaggi a Istanbul: in questo caso pesano ancora i suoi errori sul caso del terrorista Apo Ocalan.
Certo, poi, l’articolo di D’Alema sul Wall Street Journal per preparare il viaggio americano è assai ponderato: si ribadiscono le posizioni della nuova maggioranza su Irak e integrazione sempre più stretta dell’Europa (che di fatto dovrebbe divenire per il centrosinistra la vera titolare della politica estera) ma queste affermazioni si accompagnano al ricordo dell’appoggio dato dal governo guidato da D’Alema alla guerra in Kosovo, e a considerazioni rilevanti sul fatto che il Vecchio continente non deve essere una controparte degli Stati Uniti ma un partner. C’è, poi, il sostegno a una strategia per la diffusione di libertà e democrazia come via maestra per la sicurezza internazionale, sia pure da perseguire con una diplomazia trasformational, cioè che trasforma non impone.

Parole assennate che ricordano però quelle del ministro degli Esteri spagnolo, Miguel Angel Moratino, quando spiegò a Washington la svolta zapaterista. Con sostanziale e contemporanea uscita dalla grande politica internazionale.

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