È giusto - come ha fatto Maurizio Cabona nellarticolo di ieri sul Giornale, originato dai saggi di Rosselli e Pampaloni (Il ventennio in celluloide, Settimo sigillo) e dei due Marino (LOvra a Cinecittà, Bollati Boringhieri) - rivolgere talora lo sguardo al passato per capire il presente. Sul cinema italiano del periodo fascista la critica più avveduta torna periodicamente - da decenni - con un tipo di giudizio sempre complesso e problematico: bocciatura dei film dei «telefoni bianchi», di pura evasione, ed esortazione al cinema dimpegno furono del resto già bandiere della rivista di Vittorio Mussolini, Cinema.
Nelle sei edizioni della mia Storia del cinema italiano, apparse fra il 53 e l82, ho sempre messo in rilievo - alla maniera di De Felice, come auspica Cabona? - limportanza del cinema di Camerini, Blasetti e Franciolini. E fin dalla loro apparizione ho apprezzato lopera di nuovi talenti come Lattuada, Castellani e Poggioli allinterno di una battaglia critica orientata sul richiamo allopera di Verga. Definii «formalisti» quei talenti per la loro attenzione a una letteratura che ritenevo lontana dalle nostre battaglie, ma li consideravo già protagonisti di un cinema lontano dai «telefoni bianchi». E, sempre in quegli anni, apprezzai anche autori, pur coinvolti in certi film di propaganda, come Alessandrini e De Robertiis per la loro grande professionalità.
Rivisitazioni (libri, convegni, ecc.) sono sempre opportune, se non scoprono lacqua calda. La critica radicale del fascismo ha infatti sempre messo in luce la coesistenza nel regime di spinte modernizzatrici (radio, architettura, Enciclopedia Treccani, Centro sperimentale di cinematografia, Cinecittà, ecc.) con mitologie ottocentesche, destinate al fallimento (nazionalismo, impero, corporazione, ritorno alla terra). Però paragoni col passato sono sempre difficili.
Per confrontare cinema di ieri e di oggi, occorre rammentare la perdita della centralità del cinema stesso, nel campo del tempo libero. Negli anni Quaranta e Cinquanta si vendevano ancora mediamente ogni anno circa ottocento milioni di biglietti; oggi se ne vendono cento. Del resto il cinema non gode più di buona salute nemmeno a Hollywood. A renderne più difficile la situazione in Italia è la mancanza di un gioco di squadra.
I momenti di maggiore salute del nostro cinema sono stati quelli dellimpegno statale nel periodo fascista, aiutato però dopo il 1938 dallesclusione illiberale dal mercato proprio del cinema hollywoodiano; poi quelli del periodo neorealista, in cui autori - pur ispirati da poetiche diverse - si trovarono uniti dalla voglia di scoprire le pieghe più nascoste del nostro Paese e delle nostre anime (Antonioni e Fellini); infine londata genericamente definita della commedia allitaliana, che vide una trasversalità in molti film di molti autori, attori, tecnici, ecc.
Oggi - lho scritto spesso in questi ultimi anni - non mancano i talenti, ma non cè una battaglia di tendenza ad accomunarli, rendendo riconoscibile lidentità del cinema italiano. Ma è anche vero che gruppi, tendenze, battaglie di correnti prendono forma se al cinema è garantita una minima possibilità di sopravvivenza. Intanto occorre la sopravvivenza della memoria storica. La sala cinematografica è in declino, è vero, ma la tv ancora si nutre di cinema; dove sono finite però le regole che dovevano presiedere a unequa presenza del cinema italiano nella programmazioni tv? E poi occorre la sopravvivenza delle iniziative produttive. La prima regola per giungere a una vivacità del mercato è proprio la varietà delle offerte. La presenza nelle sale di molteplici offerte, a cominciare da quella nostra, non sinvoca per nostalgie stataliste, ma per la necessità di salvaguardare listituzione cinematografica nel suo complesso: dalla produzione alla distribuzione e allesercizio.
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