Due mesi fa scrissi che Romano Prodi era un pugile suonato, che prendeva cazzotti da destra e da manca e, nonostante l’arbitro non si decidesse a sospendere per ko tecnico, l’incontro volgeva al termine. Semmai ve ne fosse stato bisogno, ciò che è accaduto nell’ultima settimana è la prova evidente che il peso piuma alla guida del governo è un boxeur a fine carriera. Che dopo gli uppercut dei suoi compagni di squadra sia caduto al tappeto e ieri, sul filo della conta, sia nonostante tutto riuscito a rialzarsi, ritornando barcollante sul ring, non cambia nulla: ormai la strada dell’esecutivo è tracciata ed è quella del viale del tramonto.
Dopo aver ascoltato martedì l’inconcludente discorso al Senato di Prodi, in cui perfino i generici 12 punti sono stati annacquati e scoloriti per non turbare la sinistra estrema, appare chiaro che il presidente del Consiglio agita stancamente i guantoni, ma questi non riusciranno certo a fermare i micidiali tiri mancini che alcuni della sua maggioranza si preparano ad assestargli sulla Tav, sulla riforma delle pensioni, sull’Afghanistan. Quegli stessi senatori che gli hanno votato ieri sera la fiducia, rimandando sul ring il suo traballante governo, sono pronti a toglierla se egli si azzarderà a dare il via libera ai treni ad alta velocità in Val di Susa, ai lavori per il raddoppio della base americana a Vicenza, se rifinanzierà o potenzierà la missione militare a Kabul. Altri suoi alleati sono altrettanto determinati a fargli lo sgambetto se in Parlamento proseguirà il disegno di legge che equipara le coppie di fatto alle famiglie tradizionali.
Più volte in questi giorni di trattative quirinalizie abbiamo scritto che insistere con Prodi era un’operazione di accanimento terapeutico, che rimettere in piedi l’uomo che in nove mesi aveva portato il Paese in un vicolo cieco era un atto di masochismo. Sentito il programmino insipido del presidente del Consiglio anche alcuni dei suoi più autorevoli supporter ieri hanno storto il naso. Sotto un titolo eloquente – «Operazione sopravvivenza» - La Repubblica, il quotidiano che da anni ha la pretesa di dettare la linea al centrosinistra, per la penna del suo vicedirettore Massimo Giannini, ha scritto: «Tirare le cuoia. O tirare a campare». Il discorso di Prodi è stato «(...) un’analisi modesta ed onesta, che riconosce la natura politica della crisi: ma che oggettivamente non getta le basi di un nuovo inizio. Molto più banalmente, per il momento, cerca solo di evitare una fine prematura».
Persino per il quotidiano radical chic dunque è chiaro che il governo è destinato a non andare da nessuna parte, che Prodi tirerà solo a campare, schivando i colpi e i ganci. Per restare in piedi il suo governo dovrà fare il meno possibile, evitando di turbare una coalizione di cui fanno parte trozkisti e comunisti, radicali e democristiani. Un’armata Brancaleone che solo un Follini poteva salvare. Qualcuno si è stupito che l’ex leader dell’Udc abbia tradito evitando il naufragio di Prodi e regalandogli una maggioranza politica. Per quel che mi riguarda, nessuno stupore. L’acredine con cui Follini ha combattuto Silvio Berlusconi in questi anni lo rendeva ai miei occhi più vicino alla sinistra che al centrodestra.
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