Cronache

Quando i profughi andavano «in colonia»

Quando i profughi andavano «in colonia»

Maria Vittoria Cascino

Che storie fuggite sui tanti piani della Colonia Fara di Chiavari. Quando di colonia s'è persa la traccia e sui muri restavano le ombre dei soldati spartiti con la Piaggio. Di quelli ricoverati in questi ospedali inventati, finché la guerra nel '45 finì e a rianimarla ci pensarono i profughi istriani. Perché la colonia, messa su dall'ingegner Greco Nardi e intitolata al generale Gustavo Fara, era il Campo 72, uno dei tanti destinati ad accogliere i 350.000 giuliani e dalmati in fuga dalle loro terre. Dopo il 10 febbraio '47. Dopo il Diktat che vide l'Italia cedere alla Jugoslavia di Tito i suoi territori nord-orientali. Che vide gli italiani partire da Pola, Fiume, Cherso, «perché abbiamo scelto d'essere italiani». Segui la traccia di questo campo perso nella memoria recente. Che se chiedi come fu allora, nessuno ne sa nulla. I vecchi non ci sono più, ma i bambini del '47 ci sono eccome, con le loro storie legate a vecchie cartoline, cui restano aggrappati con la forza della disperazione mai gridata. Vai a palmi. Graziano Stagni, nato nel 1932 a Ustrine, comune di Ossero, Isola di Cherso. Forse ne sa qualcosa. Anche lui profugo, nel '47 suo padre riesce a portarlo con uno stratagemma alla Casa del Bambino Giuliano Dalmata a Roma, dove vivrà fino al '54.
«Papà, mamma e le mie sorelle restarono a Ossero fino al 50, quando ottennero la cittadinanza italiana. Furono anni durissimi per mio padre, pescatore e contadino, prelevato per i campi di lavoro volontario». Poi inizia il giro nei campi di Udine, L'Aquila, Servigliano, Tortona e Genova. «Camere di tre metri per quattro, le tende a nascondere l'intimità e i letti che guadagnavano spazio in quelle pareti di stoffa». Lui sa del Campo Fara, non c'è stato ma ha dei nomi in mezzo a quelle carte che parlano della sua terra. Che Stagni ritrova sulla terrazza di Ossero quando scappa a respirarne l'odore. Segui il filo e arrivi a Dario Peretti, chiavarese nato a Fiume nel '42 che alla Fara arriva perché il mondo è piccolo. «A Fiume siamo rimasti fino all'agosto '48. Mio padre decide per l'Italia. Nella campagna di Grecia e Albania, per cosa avrebbe combattuto allora? Fatto prigioniero finì in America. Mi vide per la prima volta quando avevo due anni e mezzo». Escono da Fiume e si fermano a Trieste: «Papà scopre che la nostra destinazione è Bari. Si ricorda allora dell'amicizia nata con un chiavarese conosciuto nel campo di prigionia. Sarà lui ad aiutarci ad entrare alla Fara. Che era praticamente al completo». Arrivano col treno a vapore, «ogni famiglia aveva a disposizione mezzo vagone per caricare le sue cose». Dario ha sei anni, negli occhi i saloni dell'ex colonia, i fili di ferro tirati a reggere le coperte e a definire le camere famigliari. Si fermano solo una settimana. «L'amico di papà ci trova una cantina dove abitiamo sei mesi. Poi è venuta la casetta ammobiliata e poi il resto».
E la gente di qui? «Per loro eravamo italiani in terra straniera, tant'è vero che sui miei documenti c'era scritto nato in Jugoslavia. Poi il tempo aggiusta tutto». I Peretti hanno lasciato a Fiume parenti, casa e terra. «Quando hanno visto le città spopolarsi, hanno ridotto i permessi. Praticamente su tre ne davano due. La zia è rimasta là». Oggi colleziona cartoline di Fiume, di prima della guerra. Ma ha un altro nome, Ferruccio Lust, che al campo Fara ci passa il '47,'48 e '49. Nasce nel '41 a Fiume, «non Rijeka. Ricordo Fiume italiana, non riconosco quella jugoslava. Sono chiavarese, ma un po' del mio cuore è sempre là. Rivedo le zone di casa mia, vicino ai giardini, alla stazione. Avevamo un negozio di calzature con laboratorio nel Corso. Ci lavoravano una ventina di persone. Quando siamo partiti abbiamo perso tutto. Nessun rimborso perché non avevamo documenti che ne testimoniassero la proprietà. Siamo venuti via con l'opzione regolare». Che significava non perdere l'italianità. «Sono partiti su un camion, poche cose raccolte di fretta, non c'era tempo. Da Trieste ai campi di Civitavecchia, Roma, Genova e finalmente Chiavari. «Eravamo al IV piano. Era importante il piano, lì alloggiavano persone riguardose, niente corde e coperte. Solo due camerate lunghissime e parallele, con file di letti intervallate da tavolini».
Lust ha ancora nel naso gli odori del cibo cotto fra i letti. Sotto, la mensa per chi faceva fatica a raggranellare qualcosa. «Tra la Fara e la spiaggia c'era una grossa buca dove finivano gli scarti della cucina. Ho visto gente frugare per cercare le bucce di patate più spesse». Il padre riesce a trovare lavoro a Genova e poi s'imbarca sulle petroliere. I soldi arrivano a rilento, «vicino al campo c'era un negozio di commestibili che ci faceva credito». L'integrazione è difficile, «ma non potevamo accettare d'essere venduti al dittatore. Sentivo i discorsi dei grandi, avevo il terrore della guerra. Vedo ancora i titini e le SS portare via di notte la gente, la porta chiusa e la parola juden dipinta sopra. E poi le decine di corpi allineati che pensavo fossero tronchi». Lust si copre gli occhi con le mani e le tira via a richiudere tutto. «Ho ricevuto anche la Comunione alla Fara, nel salone sotto le due terrazze laterali». Sul tavolo le foto e il cuore stretto.

Per una vita ricominciata da un campo profughi, per il coraggio di lasciarsi dietro tutto in nome di una italianità irrinunciabile.

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