Quegli atei devoti il cui vero Dio si chiama politica

Ruggero Guarini

L’ultimo grande prodotto culturale di questa sinistra che più appare intontita e ubriaca più si mostra convinta di essere il sale della terra e l’ombelico del mondo è l’interminabile fiume di chiacchiere che in questi giorni sta traboccando dalle pagine delle sue gazzette di riferimento sull’inesauribile tema del ritorno dell’Eterno nel vecchio cuore, magari sempre ateo ma ormai certamente devoto, di tanti suoi autorevoli esponenti.
Non si contano più le articolesse formato lenzuolo con cui i massimi nostri campioni di quel nobile sport che va sotto il nome di «battaglia delle idee» si stanno incoraggiando l’un l’altro a immaginare che il grande problema spirituale del nostro presente momento storico sia quello di stabilire se per la nostra sinistra sia un bene o un male il fatto che tanti suoi big vadano dichiarando apertamente che il diritto di credere in Dio ce l’hanno anche loro.
Ma forse il vero problema non è se loro credano o non credano in Dio. Il vero problema, magari, è se Dio crede in loro. È in ogni caso evidente che le loro sempre più frequenti professioni pubbliche di fede non hanno niente a che fare con il sentimento religioso della vita ma molto coi seguenti strazianti bisogni psico-politici:
1) Il bisogno di superare il grande trauma della loro vita – il collasso del comunismo e il crollo delle loro speranze in esso – sostituendo con nuove certezze quelle che furono loro inculcate fin dalla più tenera infanzia (tutto è storia, tutto è politica, tutto è società, tutto è partito, tutto è ragione).
2) Il bisogno di illudersi che civettando goffamente con le gerarchie ecclesiastiche riusciranno a placare lo sgomento procuratogli dall’improvvisa e un po’ tardiva scoperta del fatto evidente che la vita è e resterà sempre, come diceva Leopardi, un arcano mirabile e spaventoso.
3) Il bisogno di estrovertirsi completamente e senza residui nel progetto di un'azione al tempo stesso politica, ideologica, culturale, passionale, esistenziale, pubblica, privata eccetera eccetera, ossia in una prassi onnivora e totalizzante, tale da permettere loro di tenere eternamente a cuccia un qualche grande, inestinguibile cruccio segreto, evitando con cura il sospetto che esista una dimensione dell’esperienza umana che non ha niente a che fare con il loro vanaglorioso, perpetuo sdottoreggiare.
4) Il bisogno di porre tutti i loro rapporti umani al servizio di questo progetto e perciò di giudicarli utili o inutili e vantaggiosi o dannosi sempre e soltanto in funzione di esso.
5) Il bisogno di immaginare di essere sempre, in ogni momento della loro vita, dei capi e delle guide, il che li condanna a poter avere soltanto due tipi di relazioni: quelle del capo coi gregari della sua banda (basate sul dominio psicologico assoluto del primo sui secondi e sull'assoluta sudditanza dei secondi verso il primo) e quelle coi capi delle altre bande (basate su una gamma di passioni che va dal rispetto al sospetto, dall'ammirazione all'invidia, dalla soggezione alla complicità, dall'infatuazione all'astio, e così via ondeggiando fra l’affettuosità e l’ostilità.
Questi nuovi credenti scambiano insomma la fede in Dio con la loro fede in se stessi e nel primato della politica, che è il solo articolo della loro vecchia fede al quale, a quanto sembra, non possono rinunciare a nessun costo.
guarini.

r@virgilio.it

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