Quei lacciuoli al rilancio

Quei lacciuoli al rilancio

Rimettere l'industria al centro, rilanciare la competitività del sistema. Per le piccole imprese questi obiettivi di lunga lena richiedono una non facile rivoluzione culturale: un turnaround come dicono gli aziendalisti, però in un quadro di cooperazione e di integrazione a livelli di «reti» settoriali e funzionali. Dunque ci vuole una politica industriale moderna e innovativa che elimini ostacoli e liberi opportunità di base. Un rilancio dei «distretti industriali» è stato auspicato la settimana scorsa dal Presidente Ciampi, parlando da economista, in una delle sue giornate milanesi, durante la visita nella nuova sede del Sole 24 Ore. Traendo spunto da un articolo di Paolo Sylos Labini su una proposta di legge per la riforma delle norme sui «distretti», Ciampi li ha giustamente definiti «fondamentali per il rilancio dell'economia, a lungo trascurati». In realtà la teoria dei distretti industriali ha una tradizione che va da Alfred Marshall (il grande economista «ortodosso» di Cambridge, a cavallo fra '800 e '900) al nostro Giacomo Becattini. Essa è essenzialmente basata, soprattutto per Marshall, sulla creazione di «economie esterne» - cioè riduzioni di costi negli acquisti di beni e servizi - derivanti dallo sfruttamento di «economie interne» nella scala della produzione: vale a dire dalla capacità di qualche eccezionale fondatore di edificare e gestire un'impresa familiare (Marshall la riteneva difficilmente destinata a durare oltre la terza generazione) che, con la sua crescita, modifica l'ambiente locale o territoriale nel quale opera, suscitando altre iniziative intorno a sé attraverso l'allargamento del mercato.
Ma, beninteso, questo è soltanto il nucleo originario della teoria, che può interessare fino a un certo punto: salvo il forte accento sull'imprenditorialità. Adesso ragioniamo in termini di «reti» di imprese, di specializzazione e di complementarità produttiva. La questione tuttavia è chiara. Dalle piastrelle alle calze (se guardiamo indietro), ma speriamo soprattutto di guardare avanti, alle biotecnologie, ai nuovi materiali, alle nanotecnologie, ai microsistemi, alla meccanica avanzata e così via, in tanto i «distretti» possono dare slancio alla competitività dell'industria italiana in quanto le iniziative imprenditoriali avanzate ci siano e crescano in sinergia associativa. Questo per disporre di fattori comuni a bassi costi, irraggiungibili alle singole piccole imprese innovative. Resta una questione di economie esterne di scala, dalla ricerca ai brevetti, dal marketing al credito, dalla formazione alle esportazioni, agli adempimenti burocratici: costi privati e costi pubblici, non di rado da noi i più proibitivi.
Certo che questa è una strada da percorrere o da riprendere al più presto, se vogliamo che le potenzialità e la creatività (industriale!) delle nostre piccole imprese possano farle sopravvivere e crescere, come «sistemi» o «reti», sotto la sferza della concorrenza globale. Ma è altrettanto evidente che una politica industriale funzionale a questi obiettivi, di assoluta e urgente necessità, deve incoraggiare e favorire, non contraddire nella sua stessa «filosofia» l'esistenza e la promozione del patrimonio più prezioso per l'economia italiana: la genialità, i «talenti nascosti» della piccola imprenditorialità moderna e innovativa.
Ve l'immaginate allora, in questa prospettiva, un «distretto industriale» come circoscrizione amministrativa, quasi un nuovo «livello di governo» sia pure settorial-funzionale, con tanto di Autorità con la A maiuscola? Eppure è questo il nocciolo della proposta, dal punto di vista istituzionale e burocratico, con la sua trasparente ispirazione al metodo della pianificazione centralizzata, per quanto distrettualizzata e... decentrata, imposta dall'alto. Non sono fisime ideologiche le nostre, convinti come siamo che diversi metodi di coordinamento delle scelte economiche siano non soltanto opportune, ma indispensabili anche (e forse soprattutto) in questa fase storica di necessaria, vitale trasformazione competitiva dell'economia italiana. Non siamo adoratori acritici del mercato e non ignoriamo di sicuro che tutte le organizzazioni, a cominciare dalle imprese private, operano al loro interno in base a piani (magari dal basso e tuttavia pur sempre con criteri gerarchici). Ma è il vaglio del mercato che ne sancisce l'efficienza, la capacità di innovazione - l'incessante «scoperta del nuovo» come von Hajek chiamava la concorrenza non libresca, in concreto - e quindi la genuina imprenditorialità.


Quindi: no alle Autorità distrettuali, no alla pianificazione dei distretti, sì invece a una politica industriale che ne rilanci le opportunità, in base a quel «principio di sussidiarietà» che non trova posto nella nostra Costituzione ma che regge (dovrebbe reggere) l'impostazione, antitetica, del Trattato europeo.

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