Quei «tecno-buonisti» che rivogliono la scuola democratica

Quei «tecno-buonisti» che rivogliono la scuola democratica

di Giorgio Israel

Come ha osservato Pietro De Marco, il governo Monti, in quanto governo tecnico «del Presidente della Repubblica», fruisce di un «esonero» pro tempore dalle regole di rappresentanza politica, ma il suo mandato volto all’emergenza economica esclude che l’«esonero» possa estendersi ad attività ministeriali diverse da questa, quanto meno in forme troppo innovative. Osserva De Marco che può nascere la tentazione di operare al di là di questi limiti ma questo «sovrappiù sarebbe politicamente un’abuso di autorità».
È già assai opinabile che esistano scelte economiche tecniche prive di valenza politica, ma ciò è assolutamente escluso in tema di istruzione, dove le scelte sono culturali e mai riducibili a questioni di efficienza gestionale. Purtroppo già emerge la tentazione di riprendere il percorso «virtuoso» di un certo progressismo «donmilanista» che gli ambienti della cosiddetta «scuola democratica» lamentano sia stato interrotto o compromesso in questi anni. La stampa ha dato ampio spazio ai propositi del nuovo sottosegretario Marco Rossi Doria di trasformare le procedure della sospensione scolastica: il ragazzo torna a scuola, viene separato dal resto della classe, fa qualche piccolo lavoretto (cancellare una scritta) per poi riaprire un discorso con l’insegnante e seguire le lezioni separatamente. Può essere una buona idea - ha osservato Paola Mastrocola - trasformare la sospensione in attività scolastica, ma non nella presa in giro di premiare magari chi ha provocato migliaia di euro di danni con qualche lavoretto occasionale assortito di lezioni private: tuta e guanti, i lavori non mancano. E sudi il doppio per recuperare lo studio perduto.
V’è chi pensa che la punizione sia soltanto dannosa. V’è chi pensa che l’accoglienza e il dialogo non servano se non sono assortite dall’esercizio della giustizia, che è essenziale nella formazione della coscienza del cittadino. Un grande pensatore cattolico come Arturo Carlo Jemolo ha ricordato che la colpa deve avere come risposta al contempo la carità e la punizione assortita di una componente «afflittiva». Sono opinioni diverse, ma il tema è delicatissimo e un governo tecnico non può assumersi la responsabilità di schierarsi sulla linea di dottrine pedagogiche che si sentono dotate di una sorta di investitura divina.
Nascono perplessità analoghe su altri temi. La Fondazione Agnelli ha prodotto uno studio sulla scuola media individuandola come il buco nero della scuola, proponendo di ristrutturarla secondo il modello della scuola primaria, vista come un modello di successo, e muovendo verso l’eliminazione della lezione frontale, un tema anche questo avanzato da Rossi Doria. La questione è assai controversa. È tutt’altro che evidente che la scuola primaria funzioni bene. A mio avviso, e di molti, è la vera matrice del disastro della scuola. I vizi della scuola media non sono dovuti alla sua funzione istitutiva che, al contrario, è preziosa, quanto a specifici difetti, tra cui la pessima preparazione degli insegnanti di scienze: a questi e altri ha proposto valide soluzioni il nuovo regolamento per la formazione degli insegnanti che però da tre anni è scandalosamente boicottato, e in questo periodo più che mai. Ci si attende che il governo tecnico rimuova questo boicottaggio e che invece si tenga alla larga da scelte impegnative e dotate di fortissima valenza culturale come il «cooperative learning». Tanto più sarebbe sbagliato farlo sulla base di studi che hanno il solito difetto di basarsi su statistiche e test senza entrare mai nel merito di cosa e come viene insegnato effettivamente a scuola.
Non si può chiedere a istituzioni confindustriali e bancarie di avere le competenze circa cosa e come si debba insegnare la matematica o la storia. Ma allora il loro grande interesse per la scuola dovrebbe essere esercitato con discrezione, senza dare l’impressione di voler esercitare una sorta di potere consolare sul sistema dell’istruzione. È un discorso che vale anche per l’università dove spesso si sentono sconcertanti sentenze circa l’inutilità della scienza teorica e la necessità di ancorare le università alle aziende e al tessuto produttivo del territorio. Tutto ciò può essere positivo entro certi limiti, ma fa ridere il pensiero che l’università di Harvard sia di qualità perché è connessa al tessuto produttivo circostante e non perché è una grande istituzione scientifico-culturale internazionale.

Sarebbe disastroso curare il sistema dell’istruzione proprio con i limiti e i provincialismi del nostro sistema produttivo. Un governo tecnico dovrebbe avere la sensibilità di muoversi con estrema cautela su un terreno tanto delicato, altrimenti davvero si pone un problema di democrazia.

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