Ma quel viaggio è incomprensibile

Lo spettatore si chiederà perché il personaggio si agiti tanto per portare un ingranaggio laggiù, perché non lavori, dove trovi i soldi

Maurizio Cabona

da Venezia

La stella che non c’è di Gianni Amelio - ieri in concorso alla Mostra di Venezia - ha dignità formale. Gli manca la ragion d’essere. L’inseguimento di un metallurgico del «suo» stabilimento siderurgico, venduto alla Cina, aveva un senso nel romanzo La dismissione di Ermanno Rea (Rizzoli), ma l’ha perso nella sceneggiatura del film di Amelio che vi si ispira. Lo spettatore medio si chiederà dunque perché il metallurgico (Sergio Castellitto) s’agiti tanto per portare in Cina un ingranaggio; perché non lavori; dove trovi i soldi per un viaggio così costoso e insensato... Solo lo spettatore d’età e colto intuirà che il metallurgico è ferito nell’onore come nostalgico, come reduce della ora quasi estinta classe operaia. Il suo viaggio nello spazio è soprattutto un viaggio nel tempo, in cerca del suo passato. Ma se la Cina ha ancora tanti operai, costoro sono solo una classe sociologica, non politica. Oggi l’operaio cinese ragiona come ieri ragionava l'operaio emiliano (toscano, umbro...): vuole lasciare la fabbrica, salvo diventarne padrone...
Ignorando questo antefatto, La stella che non c’è pare la versione triste di Fumo di Londra, pare un Fumo di Pechino, con Castellitto a smaniare come un Sordi triste. Se nel film ci fossero eventi di rilievo, la carenza di movente, salvo la follia, del protagonista si noterebbe meno. Ma Amelio mostra una Cina grigia, periferica, quotidiana e la fa fotografare a Luca Bigazzi con toni smorti, nonostante la luce estiva.
Amelio è come il suo metallurgico: ha più nostalgie che idee e manca di nerbo. Non osa scagliare un’invettiva contro chi ha rinnegato tutto. E il «politicamente corretto», infimo surrogato del marxismo, gli impedisce perfino d’esaltare la rinata grandezza della Cina. Perché Amelio s’è posto la questione, come appare fin dal titolo, che allude al simbolismo della bandiera cinese, dove la stella grande è la patria e le quattro piccole rappresentano gli operai, i braccianti, i militari e la borghesia nazionale. Nel discorso che Amelio affida a Castellitto tutto però si riduce ai sentimenti che dovrebbero animare i popoli, un buonismo fuori luogo ovunque e fuori luogo due volte in Cina. Ma Amelio avrebbe ancora un modo per salvare il film: tornare al montaggio e chiuderlo quando l’operaio cinese getta l’ingranaggio che Castellitto ha recapitato con tanta, non richiesta fatica. Dichiarazione di fallimento del personaggio che eviterebbe quello del film.
Un viaggio strano, se non insensato, in Oriente è al centro anche dell’altro film in concorso ieri, L’intouchable di Benôit Jacquot, con Isild Le Besco nel ruolo di un’attrice francese che parte per l’India per guardare, non per conoscere, il padre di cui ha appena appreso l’esistenza, un insegnante ma anche un «intoccabile». Perché lo fa? Viene il sospetto che anche qui, come nel film di Amelio, il viaggio serva solo a rendere appena appena spettacolare il disagio del personaggio, che ama recitare Brecht, ma che con Brecht farebbe la fame; e che si paga il viaggio con un film erotico.
Anche con Jacquot siamo dunque alla nostalgia per un modo di lavorare diverso da quello oggi prevalente.

Ma anche lo spettatore indifferente ai problemi d’identità e adattamento troverà una ragione per lo sguardo, che il film di Amelio non gli darebbe: infatti Isild Le Besco si offre spesso nella sua integrale, giunonica bellezza di ventenne. Se la censura non interverrà, c’è abbastanza da giustificare il costo del biglietto e un'ora e un quarto - un’ora bastava - di film.

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