Ma la questione dei dialetti insegnati nelle scuole non l’aveva risolta Gentile?

Caro Direttore,
capisco che l’opinione pubblica patriottica si sia scandalizzata della proposta, proveniente da uomini della Lega, di inserire il dialetto nelle scuole e di affiancare alla bandiera nazionale simboli regionali. Addirittura qualcuno si è spinto (Corriere della Sera) a negare l’esistenza di un sentire regionale a favore di un sentire comunale (che cosa erano la Sicilia nell’ambito del Regno di Napoli prima e del Regno delle due Sicilie dopo? O la Toscana leopoldina e dei governi provvisori?). Capisco, l’argomento è delicato e, preso per il verso sbagliato, fautore involontario di quel revisionismo che finisce per negare la forza naturale della storia.
In quanto ai simboli, le bandiere con il simbolo della regione sono da tempo presenti in tutta Italia, senza scandalo, nella maggior parte delle manifestazioni pubbliche e sono esposte senza remore ai balconi degli edifici pubblici.
Ma altro mi preme ricordare. In tempi meno sospetti non era un delitto parlare di dialetto e del suo valore. Si può dubitare del nazionalismo di un Gentile o di un Lombardo Radice, suo primo collaboratore? Ebbene, ci ricorda E. de Fort (Nuova rivista storica, 1984): «L’attenzione alle regioni, in tempi di nazionalismo trionfante, costituiva un argomento delicato, da cui era necessario stornare ogni sospetto. Secondo Lombardo Radice, il cui nazionalismo non poteva d’altra parte essere messo in dubbio, la cultura regionale era una tappa verso l’acquisizione del più elevato senso della Patria, così come il dialetto, riscattato da decenni di ostracismo, costituiva il punto di partenza verso l’apprendimento della lingua nazionale». La riforma Gentile prescrive (R.D. 1 ottobre 1923, n. 2185) che nella scuola elementare inferiore si eseguano «traduzioni dal dialetto». In tempi più vicini, i programmi della nuova scuola media unica, considerata uno dei fattori di maggiore carica unificante della nazione repubblicana (D.M. 9 febbraio 1979) recitano: «La particolare condizione linguistica della società italiana, con la presenza di dialetti diversi e di altri idiomi e con gli effetti di vasti fenomeni migratori, richiede che la scuola non prescinda da tale varietà di tradizioni e di realtà linguistiche». E concludono; «... Si metterà in luce l’apporto dei dialetti e la loro utilizzazione pratica ed espressiva (in canti, racconti, proverbi). Dei dialetti e delle lingue delle minoranze etniche si accennerà alla funzione sia nel passato, sia nel presente».
Tanto dovevo per completezza dell'informazione (per inciso, il motivo del mio cellulare è Fratelli d’Italia).

Caro Nicola, complimenti per la sua conoscenza storica. A mio avviso, però, tra quanto proponeva Gentile o quanto proponeva la riforma della scuola media unica del ’79 e i giorni nostri c’è un abisso.

Allora il dialetto era un modo di avvicinare gli studenti all’italiano, adesso introdurne lo studio è una difficile operazione di salvataggio culturale (che non merita le facili ironie di Claudio Magris sul Corriere). Quindi discutiamone, ma discutiamone su basi nuove.

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