Quando sabato scorso il premio letterario Campiello è stato aggiudicato a Mariolina Venezia per il suo romanzo desordio Mille anni che sto qui (Einaudi), nelle corti letterarie molti si sono chiesti: «E chi è?». Tutti sorpresi dalla notizia che il premio non fosse stato vinto dal talentuoso Carlo Fruttero, ma da una sconosciuta, o quasi.
Quando nei giorni successivi ci sono state le solite, rituali, polemiche, tutti hanno parlato molto, moltissimo, del perdente, poco o niente invece della vincitrice. E a onor del vero, quando nel luglio del 2005 il suo manoscritto arrivò alla Einaudi, ci fu anche chi diede un parere non proprio positivo, bollando il libro come unopera troppo popolare, troppo convenzionale, costruita con troppi personaggi, insomma poco consona allo stile einaudiano. Ma, poi, appena finì nelle mani di quelle che sarebbero diventate le sue editor, Dalia Oggero e Monica Gallo, entrambe si resero conto di aver a che fare, sin dalla prima pagina, con una scrittrice di talento, che aveva saputo mescolare limmediatezza della sceneggiatura con un ritmo narrativo autentico, lirico, pieno di disincantato incanto. E allora forse è il caso di dire chi è Mariolina Venezia.
È una donna, felicemente single, di 45 anni, che non ha gatti, né cani né figli da accudire, ma solo una pianta: un ficus benjamin per lesattezza. Una donna che è nata e vissuta a Grottole (dove è ambientato il suo libro) fino a otto anni, e poi è andata ad abitare in ordine cronologico: a Monopoli, a Matera, a Bologna, a Montpellier, a Parigi e infine a Roma. E non è una sceneggiatrice prestata alla letteratura, come fa notare lei quando qualcuno la guarda con quellespressione come per dire: «Ma comè che ti sei meritata il Campiello?».
Al contrario ha vinto il suo primo premio letterario quando era ancora unadolescente e ha scritto un breve racconto per la rivista Lei. In palio cerano solo un paio di scarpette da tennis che, purtroppo, ha perso. A ventidue anni ha pubblicato il suo primo libro di poesie per una casa editrice francese di nicchia, la stessa che ha scoperto Paul Auster. Si intitolava Vocalità e una delle sue poesie preferite faceva così: «Bambini giocano su un sagrato di chiesa/ uno di loro è mio cugino e laltra sono io/ ma quando questo succedeva/ io veramente non potevo saperlo».
In Francia si è trasferita per amore, dopo aver frequentato il Dams a Bologna. Mentre lavorava per la radio France culture, (per cui fece uninchiesta sugli esuli politici che le sarebbe servita a forgiare la storia della protagonista del romanzo, Gioia) pubblicò altri due libri di poesie. Poi decise di tornare a casa e si presentò alla Rai per trovare un lavoro, ma le risposero cosi: «Signorina, mi spiace, in Italia cè la lottizzazione». Allora lei si disse: «Beh, se voglio continuare a scrivere devo pur guadagnare dei soldi» e studiò sceneggiatura al Centro sperimentale della scuola di cinema a Roma. Ecco perché, desiderosa di smuovere un po le acque, durante la premiazione del Campiello ha detto la cosa più banale del mondo che ha sollevato un po di polvere: che, guarda un po, lei scrive anche per guadagnarsi da vivere.
Infatti, interpellata dal Giornale, ricorda ciò che scrisse William Faulkner nella prefazione del Santuario: «Questo libro è stato scritto per la necessità di far soldi».
«È tosta, provocatoria», dice di lei, chi la conosce. «Ha talento», dice di lei, chi la legge. E a chi ha cercato di svalutarla, ricordando che in fondo è solo una sceneggiatrice (ha scritto episodi de La Squadra, Il Capitano e ha collaborato al film di Sabina Guzzanti La Bimba) lei risponde che già Henry Fielding nel Settecento ironizzava sulle sterili polemiche fra letteratura alta e bassa.
Già che cè fa sapere che al Campiello non ha gareggiato per partecipare, ma per vincere.
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