Mondo

"Racconto nonno Gandhi fra Duce e Montessori"

Intervista a Tara, la nipote del Mahatma: "Mussolini gli raccontò le sue intenzioni politiche. Poi incontrò l’educatrice a Londra e rimasero sempre in contatto"

"Racconto nonno Gandhi 
fra Duce e Montessori"

La vita di Tara Gandhi è cambiata per sempre il 30 gennaio 1948. Quel giorno suo nonno, Mahatma Gandhi, con il quale aveva giocato, parlato e scherzato fino al pomeriggio precedente, venne assassinato a Nuova Delhi. E Tara capì, nell’attimo drammatico della telefonata che le comunicò la notizia, cosa avrebbe fatto da grande. A cosa avrebbe dedicato l’esistenza: continuare l’opera di Gandhi perché parole come «pace» e «libertà» non diventino termini svuotati di significato. Lo spiega con voce dolce e modi garbati, nell’italiano perfetto di chi ha trascorso 12 anni a Roma, ma anche con gli occhi. Due occhi neri e profondi, due sonde che sembrano leggere nell’anima. Tara, che oggi ha 77 anni ed è vicepresidente del Kasturba Gandhi National Memorial Trust, spiega come si può sconfiggere la paura e aiutare l’umanità.

Suo nonno paterno è stato uno dei pionieri del satyagraha, la resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza civile e pacifica. Cosa penserebbe di quanto è accaduto in Egitto, Tunisia e Libia?
«Lui credeva fermamente nella forza della non violenza. In Egitto la situazione era differente rispetto alla Libia e alla Tunisia. So che in Egitto c’era il desiderio di un cambiamento, senza violenza. Ma oggi possiamo anche parlare di quello che è accaduto in Giappone in cui è emersa un’altra cosa».

Cioè quale?
«Come la forza della natura può annullare la tecnologia. Anche se la tecnologia in Giappone è ad altissimi livelli, non ha potuto nulla di fronte allo tsunami. Le parlo del Giappone perché è un fatto accaduto contemporaneamente a quello della Libia e Tunisia. È un messaggio».

Quali i prossimi obiettivi del Kasturba Gandhi Memorial Trust?
«Non ho inventato io questa fondazione, ma Mahatma Gandhi. La volle quando morì sua moglie per aiutare bambini, anziani, malati e bisognosi dei villaggi d’India. Oggi questa fondazione, composta da donne intellettualmente molto forti, compie 65 anni e conta 25 sedi in tutta l’India e 500 succursali».

Cosa significa per lei la parola «pace»?
«Pace interiore. Niente guerra, niente sangue. Paura significa anche violenza della mente. Ci sono molti poveri senza lavoro e non ci sono medicine e ospedali a sufficienza. Violenza è anche non lavorare. Oggi abusiamo della parola “pace”. La pace non arriva solo perché io ho detto “pace”: la pace deve essere nell’aria e nell’atmosfera quindi non c’è bisogno neanche di parlarne. Oggi è la paura che domina l’umanità».

Quale paura?
«Paura della solitudine, paura di mancanza di cibo, paura della vecchiaia, paura di perdere, paura di non avere di più qualcosa, paura di non avere potere, paura di non avere una poltrona. La paura di solitudine poi è fortissima. Nei quartieri eleganti di Londra, per esempio, non posso chiedere aiuto o bussare ad una porta. Perché non c’è aiuto disponibile. Invece ci dovrebbe essere un flusso d’amore che lega tutta l’umanità».

Nel 1931 Gandhi conobbe anche l’Italia e fu accolto da Mussolini con tutti gli onori e una parata militare. Come andò quell’incontro?
«L’incontro ci fu ma non penso sia stato particolarmente intenso e lungo. So però che conversarono per circa mezz’ora e che Mussolini comunicò a mio nonno le sue intenzioni politiche».

E poi ci fu l'incontro con Maria Montessori...
«Gandhi la incontrò per la prima volta a Londra. E lì ebbero modo di conoscersi. Entrambi avevano a cuore l’importanza dell’educazione dei bambini. Rimasero sempre in contatto per scambiarsi reciprocamente consigli ed esperienze».

Come tanti «grandi della terra» suo nonno è stato assassinato. Cosa ricorda di quel 30 gennaio 1948 a Nuova Delhi?
«Ho visto Gandhi il giorno prima nell’ufficio in cui io lavoro adesso. Mi ricordo che quel giorno avrei voluto chiedergli molte cose, molti consigli per il mio futuro: io non volevo studiare, ma aiutare i poveri bisognosi. Mi ricordo che fuori pioveva e faceva molto freddo. Mi disse che io dovevo studiare, frequentare l’università, e che poi, al momento giusto, avrei capito da sola cosa dovevo fare. Ricordo che quando uscii dalla stanza ebbi una strana sensazione. Come quando devi salutare qualcuno che sta per partire per un lungo viaggio».

Che tipo era nella vita di tutti i giorni?
«Mio nonno era una persona interessante, divertente, viveva ogni minuto con spirito di avventura. Esattamente come voglio vivere io. Lui viveva di amore, compassione e coraggio. Ha trascorso gli ultimi anni della sua vita da minimalista: era come un fachiro, mangiava pochissimo, vestiva sempre e solo come un contadino indiano. Era un uomo di azione, conosceva il mondo occidentale molto bene e aveva la grande capacità di convertire i nemici in amici».

Torniamo a quel tragico 30 gennaio.
«Mi ricordo che io avrei dovuto andare da lui, dopo aver fatto i compiti di scuola. Ricordo che stavo per terminarli quando mio padre ricevette una telefonata in cui gli dissero che mio nonno era stato assassinato. Io e i miei fratelli eravamo sotto choc. Erano le cinque di pomeriggio e io, da allora, ogni pomeriggio alle 5 penso a quel momento. Andammo sul luogo dell’omicidio, sempre l’ufficio dove lavoro oggi. C’era una grande folla intorno alla casa, entrai dentro e vidi la salma di mio nonno con i fiori intorno e i miei parenti che piangevano».

Lo vedeva spesso?
«Per me era una gioia vedere tutti i pomeriggi mio nonno e quindi mi mancò molto dopo la sua morte. Quando Gandhi vedeva una persona non la giudicava: riusciva a intuire il suo talento e cercava di valorizzarlo».

Lo seguì anche in occasioni ufficiali?
«Stava negoziando con gli inglesi sulla questione del Pakistan e sulla libertà dell’India. Ricordo che mi presentò a un importante uomo politico internazionale che mi domandò: “How do you do?”. Io gli risposi che avevo avuto mal di testa e che poi mia madre mi aveva curata e mi aveva dato le medicine. Gandhi mi prese per mano, mi portò in un angolo e mi spiegò che dovevo rispondere solo “how do you do”, e non parlare della mia salute. Mio nonno aveva dedicato la sua vita ai malati. Se una persona è ammalata, bisogna ospitarla, diceva sempre. Per lui i malati erano i più importanti di tutti».

Tra i tanti insegnamenti di suo nonno, quale è secondo lei il più importante?
«L’insegnamento che io mi sento di suggerire è: “Si può usare la nostra testa secondo la nostra coscienza”.

Inoltre mi sento di dire che non bisogna mai infierire su una persona più debole: sia esso bambino, un cane o un vecchio».

Commenti