Cultura e Spettacoli

Un radicale irruente col vizio del duello

Non passava giorno senza che si sentisse punto nell’onore. Tutto veniva risolto a colpi di sciabola. Teorico dell’arte militante, fu il Bertold Brecht dell’Ottocento

Morì in pochi minuti, dissanguato. Doveva essere un qualsiasi duello dei tanti affrontati in 56 anni di vita, fu invece l’ultimo. Motivo dello scontro era stata l’ennesima polemica politico-giornalistica. Da un lato, i soliti toni forti usati dal Nostro contro Francesco Crispi, peraltro ormai uscito di scena. Dall’altro, la replica sulla Gazzetta di Venezia di pugno del direttore, un conte veneto. Tanto bastò per innescare la sfida.
Il giornalista, per la verità, non avrebbe voluto. Ma non ci fu verso: il Nostro ne faceva una questione d’onore. Fu scelta per lo scontro Villa Cellere, alle porte di Roma, per arma la sciabola, per orario il primo pomeriggio. Era marzo e il sole tramontava presto.
La stoccata del conte avrebbe dovuto solo ferire il labbro. Invece, la punta della sciabola trovò uno spiraglio nello spazio lasciato vuoto da tre denti mancanti, penetrò nel cavo della bocca e finì nella gola dell’avversario, lacerandola. La fine sopravvenne davanti al medico impotente, i padrini basiti, il vincitore disperato.
Il corpo fu rivestito, ironia della sorte, con una camicia da notte di Crispi che, amico della padrona di casa, era spesso ospite di Villa Cellere. Così, il Nostro si avviò alla tomba avviluppato nella veste dell’uomo che aveva più combattuto in vita.
Durante il trasporto della salma da Roma a Milano, città natale del morto, la gente si assiepò lungo i binari. Al funerale, un corteo di 300mila persone serpeggiò per tre chilometri fino al Monumentale. Filippo Turati tenne l’elogio funebre senza trattenere le lacrime. Ma che dico elogio! Fu un inno allo scomparso. «Non a un uomo diciamo addio; ma a una generazione d’uomini; a quanto fu in essa di bello, di alto, di fiero: \. Non un sepolcro è questo che spalanchiamo, ma un cimitero vastissimo, nel quale un’era della storia riposa». Solo per Giacomo Matteotti, il socialista Turati avrebbe trovato parole altrettanto ispirate 26 anni dopo.
Cosa aveva fatto il Nostro per suscitare un simile cordoglio?
Certo, la sua opera aveva entusiasmato gli italiani colti di quello scorcio di ’800. La sua facile vena poetica, quasi da improvvisatore, aveva regalato versi tonitruanti che molti mandavano a memoria. Le sue rime scapigliate piacquero anche a Carducci che lo definì «il lirico della bohème». Ma soprattutto aveva avuto successo la sua smisurata produzione drammaturgica. Un quarto di secolo di teatro, raccolto in dieci volumi che ne fecero il Bertold Brecht di quegli anni. Teorico dell’arte militante, il Nostro si era assegnato una «missione educatrice» fin dal debutto a 30 anni con I Pezzenti. Seguirono, per citare alla rinfusa, Alcibiade, I Messeni, Il Cantico dei Cantici, Il Povero Piero. Al di sopra degli altri, Agatodémon (Il demone buono) con protagonista un aspirante suicida e scene «sociali» come questa. Portalettere: «Sei ore di strada tutti i dì! Quando piove a dirotto e quando scotta il sole». Aspirante suicida: «E ti danno?». Portalettere: «Due lire e mezzo al giorno, ma c’è la ritenuta». Un teatro che ripugnava ai palati fini di Luigi Capuana e di Benedetto Croce, ai quali «l’impegno» pareva antipoetico, ma di enorme presa sul grande pubblico.
Non fu però tanto la fama letteraria a fare entrare il Nostro nel cuore dei contemporanei, quanto l’energica personalità e la sua incredibile figura da matamoro, con baffoni spioventi e attorcigliati come vibrisse di una tigre.
Vivacissimo e di carattere impetuoso, non riuscì a partire coi Mille di Garibaldi per la minore età. Ma appena diciottenne fuggì di casa per imbarcarsi con la seconda spedizione capitanata da Medici del Vascello. Si mise in luce durante la traversata per gli inni di guerra che componeva all’impronta e l’allegria scanzonata. Prese parte alle battaglie di Milazzo e Volturno. A Napoli conobbe Dumas padre che lo fece collaborare al suo Indipendente. Fu il suo debutto nel giornalismo, carriera che abbracciò una volta tornato a Milano. I suoi articoli decisi e irriverenti gli procurarono una serie infinita di duelli e di ferite.
Ma la sua vocazione era politica. Eletto a 31 anni deputato di Corteolona, fece un esordio da pugno allo stomaco. Nel prestare giuramento al re, lo svilì dichiarando che la sola fedeltà cui si sentiva vincolato era quella agli elettori. Il presidente della Camera, Farini, lo rimproverò: «Un uomo d’onore che giura, contrae dei doveri ai quali non può venire meno». «Al mio onore ci penso io», replicò il Nostro avviandosi ai banchi dell’estrema sinistra.
Fu il deputato più radicale dell’epoca. Stimatissimo per l’integrità, discusso per l’aggressività, Una spina nel fianco anche per la sua parte politica. Fustigò il trasformismo di Depretis e la disinvoltura di Crispi. Denunciò i brogli di costui nella faccenda della Banca Romana e la sua scandalosa bigamia nella celebre Lettera agli onesti. Esagerando, divulgò anche un bigliettino della moglie di Crispi, Filomena Barbagallo, al suo amante: «Vieni, spaccami il c... ma fammi godere». Cadde, insomma, negli eccessi partigiani che degradano anche i migliori.

La morte cancellò i suoi torti, suscitando il rimpianto che lasciano i puri di cuore.
Chi era?

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