Le radici di Fiuggi2

Con il documento e la risoluzione approvati ieri dall’Assemblea di Alleanza nazionale - «all’unanimità meno alcune astensioni», secondo un’espressione coniata dal presidente Franco Servello e già entrata nella storia lessicale delle assemblee partitiche postmoderne - Gianfranco Fini ha ottenuto alcuni obiettivi non scontati. Il primo è quello di chiudere positivamente una discussione cominciata nel mese di luglio, e passata anche per la convocazione di «forum» con gli intellettuali d’area, il mondo delle imprese e quello dell’associazionismo, un’operazione che ha dato alla destra, seppure in ritardo, la possibilità del confronto con segmenti significativi dell’opinione pubblica. Il secondo è quello di dotare finalmente il partito di una strategia di medio periodo: la decisione di chiedere l’ingresso nel Partito popolare europeo nel 2009 chiude un dibattito cominciato quattro anni fa, con le tesi presentato al Congresso nazionale di Bologna, e diviene una prospettiva ritenuta «ineludibile». A patto, hanno spiegato in tanti, che il Ppe non sia più solo un’aggregazione di moderati ma un soggetto politico modernizzatore e centrato sulla promozione delle identità nazionali contro le tentazioni tecnocratiche di Bruxelles.
All’interno di questa cornice si situano i singoli passaggi politici che riguardano il «posizionamento geopolitico» di An e sui quali, scontata qualche incertezza interna, Fini sembra aver definitivamente imboccato la strada di una destra nazional-riformista. Il presidente di An, come tutti, ha letto i sondaggi che danno il centrodestra di nuovo maggioranza in Italia. La sua ripetuta insistenza sulla permanenza «temporanea» all’opposizione è un invito a pensare la Cdl come governo potenziale e a concentrarsi di più su ciò che sta avvenendo nel Paese reale. Come ha detto Gianni Alemanno, «il governo Prodi voleva unificare l’Italia e invece ha unificato il centrodestra» o perlomeno il suo elettorato, che chiede un’opposizione dura e comprende sempre di meno le schermaglie che talvolta sorgono a beneficio della visibilità di questo o quel leader. L’ha risottolineato lo stesso Fini: il «popolo delle libertà» è molto più coeso della coalizione che lo rappresenta politicamente, ed è questo il primo dato grezzo con cui lavorare per progettare l'opposizione a Prodi, in parte cambiando l'approccio seguito negli ultimi mesi.
Quando un dalemiano deluso come Nicola Rossi scrive che l’Unione ha scelto una strada diversa dal riformismo, arriva dal leader di An la rivendicazione del riformismo come prassi politica. Lo dimostrano alcune scelte nette operate da Fini, come la proposta di tentare delle modifiche strutturali alla Finanziaria attraverso il lavoro in Parlamento e l'adesione al «tavolo dei volenterosi», lasciando le manifestazioni di piazza come ultima chance per cavalcare il malcontento popolare: una strada alternativa all’attendismo dell'Udc e le richieste di immediata mobilitazione di alcuni settori di Forza Italia e della Lega, che pongono Fini nella condizione di mediatore tra le due «anime» del centrodestra su questo tema caldissimo. O come il processo di riorganizzazione interna, di selezione della classe dirigente e di definizione dell’azione di An, con il partito unico di centrodestra sullo sfondo. Chiuse definitivamente le vertenze sui «valori», un’ars tafazziana nella quale la destra italiana s’è macerata nella fase terminale del governo, la sfida contemporanea è quella di intercettare la famosa «destra sommersa» realizzando politiche congruenti con quei valori: la sicurezza, la centralità della persona nelle politiche sociali, le politiche urbanistiche, la condizione giovanile, il rapporto tra cittadini e amministratori, ma anche l’integrazione degli immigrati nel quadro di un’identità nazionale aperta e inclusiva e i «diritti civili», un termine prima tabù che oggi invece ha fatto ingresso nella carta d’identità del partito. Il passaggio dagli slogan ai fatti sarà materia dei prossimi mesi.
Intanto, il profilo di An che esce da questa «due giorni» è abbastanza netto, e avvicina ancora di più il partito di Fini a ciò che, con le ovvie differenze legate ai singoli contesti nazionali, stanno facendo in Europa i leader riformisti della «destra nuova»: Nicolas Sarkozy, con la scommessa di aggiornare la tradizione repubblicana francese includendovi la dimensione della religiosità, e David Cameron, che ha superato il thatcherismo definendo i temi della giustizia sociale, dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile le priorità in agenda per i suoi Tories.

Con un occhio oltreoceano al repubblicano John McCain, non a caso il mese scorso invitato da Cameron in qualità di testimonial, che sta impostando la sua corsa alla presidenza americana nel segno di un approccio meno muscolare e più «eurofilo» alla presenza degli Stati Uniti nel mondo globale. La «seconda Fiuggi» di Fini, perlomeno, non mette radici nel vuoto.

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