Caro Massimiliano, leggo con grande attenzione la tua posizione riguardo la Moschea e credo sia importante aprire una finestra ad integrazione di quanto da te sostenuto. Premetto che non sono un «neocon» e che tanto meno sono un sostenitore di «uno scontro di civiltà», ma ritengo sia di tutta evidenza che il nostro problema principale (proprio a livello epidermico), si riverbera in tutta la sua intensità e complessità nel dibattito culturale sollevato, sia quello della nostra quasi totale assenza di una «forte presenza della nostra identità culturale» nella vita della città di Genova. In altre parole, Genova ed i genovesi si trovano nella non esaltante situazione di un possibile (e probabile) «forte annacquamento culturale» in presenza di una istituzionalizzazione in città del mondo religioso islamico. Ma, come sempre nella vita, non tutte le realtà sono assimilabili. Genova negli anni è diventata una società dal pensiero «debole» dove la gente, almeno per ora, non riesce a sprigionare un'energia, sia sociale che economica, tale da affermare le logiche positive della cristianità e dell'identità del luogo. Attenzione, dico questo perché l'integrazione fatta bene ovunque essa sia riposa proprio su questi concetti base. È il fondamento di qualunque modello virtuoso di integrazione fra razze la forza dei principi e dei valori della gente della terra ospitante. Paradossalmente i primi a beneficiarne sono sempre le genti «nuove» che arrivano con tanta speranza e voglia di vivere.
Nulla di personale, ma la nostra debolezza è sotto gli occhi di tutti. La società genovese è in difficoltà. Da noi tanti anziani, i giovani con fortissime problematiche lavorative e noi, i quaranta-cinquantenni, ricurvi su noi stessi un po per il delicato momento della crisi globale che ci attanaglia ed un po perché dell'affermazione dei valori identitari non siamo mai stati dei paladini. Quindi non è solo una problematica religiosa. È in particolare una questione di affermazione, o per meglio dire secondo un linguaggio politicamente corretto, di convivenza fra identità culturali su di uno stesso territorio. E peraltro mi sento molto vicino ai concetti recentemente espressi da Marcello Pera in una intervista a «il Giornale» quando dice «Dobbiamo difendere la nostra identità cristiana, invece vedo in giro una prudenza che sembra paura». Oggi, i milanesi, i romani, i sardi etc. presentano fortissimi accenti identitari e quindi più o meno reggono all'impatto, perché di questo si tratta. Genova ed i genovesi no. Siamo un popolo (genovese) totalmente silente, in grado di incazzarsi per il Genoa o per la Sampdoria, ma non per manifestare al mondo le nostre qualità e le nostre specificità. Non siamo in grado di imporre un modello di vita ,sintesi di valori, condizioni e tradizioni appartenenti alla nostra storia locale. L'orgoglio del luogo nasce quando esiste ed è viva negli abitanti la voglia pazza di trasmettere uno stile di vita che trova «le fondamenta» nell'identità culturale del tuo campanile. In particolare, la società genovese dovrebbe prima riscoprire il gusto dellappartenenza ad una terra e a tutto quello che essa sa dare.
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