«Repubblica» rottama il Pd e lancia la lista civica Scalfari

Ci sono quelli che ritornano, e quelli che non se ne sono mai andati: è fra queste due categorie che la sinistra italiana sceglie, incorona, uccide e resuscita i suoi leader, in un girotondo senza fine dove l’età, il merito e i risultati conseguiti sono variabili indipendenti di cui nessuno tiene mai conto.
Fra i revenants, la medaglia d’onore spetta senz’altro a Romano Prodi, che dopo aver sdegnosamente giurato di ritirarsi dalla vita politica attiva all’indomani della sua defenestrazione da Palazzo Chigi, nell’ormai lontano ottobre del 1998, non ha fatto altro che ritornare. E oggi che il profumo della vittoria torna ad inebriare la sinistra, convinta che vincere le amministrative grazie all’astensione degli elettori avversari significhi aver già vinto le politiche, Prodi non vuol perdersi la festa e, soprattutto, non vuol perdersi la corsa al Quirinale.
Quando l’anno scorso il Pd vinse la tornata amministrativa, il Professore balzò a sorpresa (e tutt’altro che gradito) sul palco di Bersani per intestarsi la vittoria e prendersi gli applausi. Oggi, alla vigilia dei ballottaggi, è l’intero stato maggiore prodiano a riunirsi a Bologna: il convegno, formalmente dedicato all’Europa e alla democrazia (con dotte relazioni di Alfolso Iozzo e Angelo Panebianco), sarà aperto da Arturo Parisi e segnerà il primo passo verso la ricostituzione della corrente prodiana, già elettrizzata dalla violenta intervista in cui il Professore, la scorsa settimana, aveva sparato a zero sulla riforma elettorale proporzionale voluta da Bersani, e poi frettolosamente ritirata dopo l’exploit di Grillo.
«Quando è nato il governo Monti - così, secondo una ricostruzione dell’Espresso, ragionano gli uomini più vicini a Prodi - non esistevano delle alternative di governo valide che potessero confrontarsi al voto. A sei mesi di distanza, non sembra cambiato molto». Di questo discuteranno gli uomini del Professore, scontenti dell’approdo neofrontista di Bersani e convinti della necessità di un accordo con una parte almeno del Terzo polo, senza i cui voti anche il Quirinale diventerebbe molto difficile da scalare.
Ma Bologna, dopo esser stata la capitale rossa d’Italia, non è soltanto la città di Prodi e dei prodisti: dal 14 al 17 giugno ospiterà anche la prima Festa nazionale di Repubblica. Proprio così: il giornale-partito che per anni ha dettato la linea alla sinistra italiana, condizionandone le leadership e modificandone profondamente la cultura politica, s’impossessa anche del rito più popolare e antico: quelle feste dell’Unità che Togliatti, nel dopoguerra, importò dalla Francia e che divennero ben presto un’icona del Pci. Sparpagliate in tutta Italia, le feste culminavano nella Festa nazionale di settembre, che tradizionalmente apriva la nuova stagione politica.
Sul finire degli anni Ottanta, quando divenne segretario del partito, Achille Occhetto modificò il rito quarantennale del comizio di chiusura, anticipandolo dalla domenica al sabato. Il motivo? In quegli anni Repubblica non usciva il lunedì, e fare un comizio senza che Repubblica ne parlasse sembrò ad Occhetto un’evidente assurdità.
Ora le feste il giornale di Scalfari e Mauro se le organizza da solo, e con un programma degno di un partito: dal discorso di apertura del direttore alle apparizioni plurime del Fondatore, dal severo Gustavo Zagrebelsky all’estenuato Baricco (già protagonista alla Leopolda di Matteo Renzi, finita poi chissà dove), da Umberto Eco (quello che la sera, in polemica con Berlusconi, legge Kant) a Concita «Se non ora quando» De Gregorio, dall’umorista triste Michele Serra al serio conduttore Gad Lerner, la varietà dei contributi farà sembrare il Partito comunista cinese una comunità libertaria. Gran finale con Mario Monti, intervistato dal duo Scalfari-Mauro in un’apoteosi di coriandoli e gnocchi fritti.
Dalla festa al partito, o perlomeno alla «lista civica», il passo può essere breve: nel suo editoriale di domenica scorsa, Scalfari aveva lanciato l’idea di «una lista civica apparentata con il Pd e rappresentativa del principio di legalità, del cui recupero - sostiene il Fondatore senza macchia e senza paura - c’è urgente bisogno. Nel principio di legalità - prosegue Scalfari - c’è anzitutto l’etica pubblica da rispettare, la lotta alle mafie e alle oligarchie corporative, la giustizia nella pubblica amministrazione, la legalità fiscale (evasione) e la legalità costituzionale». Più che un programma politico, sembra l’inaugurazione di un anno giudiziario.
La lista non si sa, se si farà (anche Paolo Flores d’Arcais ha proposto qualcosa del genere sul Fatto), ma il capolista è già noto a tutti: sarà Roberto Saviano, il bravo ragazzo di Gomorra divenuto campione di ascolti, il professionista dell’antimafia 2.0, l’ambizioso vate del luogo comune che l’ingegner De Benedetti in persona, tessera numero uno del Partito democratico, ha unto con il sacro olio della legalità repubblicana.

Non conquisterà un solo voto all’infuori della sinistra, ma potrebbe far molto male al Pd, che già ha subito e subisce pesanti emorragie verso Vendola, Di Pietro e ora anche Grillo. Del resto, De Benedetti lo ha fatto capire più volte (e recentemente in un’intervista a Servizio pubblico): caduto Berlusconi, ora è Bersani che deve levarsi di torno.

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