Giorgio Napolitano ha esortato gli italiani a celebrare il 25 Aprile rendendo omaggio alle formazioni partigiane. «Il cui eroismo, piaccia o no, fu determinante per restituire dignità, indipendenza e libertà all’Italia». Espressioni rituali delle quali capisco l’opportunità o se preferite la necessità. Con una riserva, tuttavia, per quel «piaccia o no», che si direbbe invochi il pensiero unico, e additi al pubblico biasimo chiunque dal pensiero unico si discosti. Quali che siano i sentimenti individuali - e i miei sono di sicuro vicini alla Resistenza - va detto con chiarezza che il 25 Aprile appartiene ormai alla storia: e nell’ottica storica dev’essere valutato. Non è un dogma né una tavola della legge. È un avvenimento importante della storia patria esposto, come tanti altri che l’hanno preceduto, a critiche e polemiche. Non queste devono preoccuparci, ma piuttosto la ricerca forzata d’una pseudo unanimità. Bisogna liberare il 25 Aprile da una sacralità fasulla per restituirgli il posto cui ha diritto nei fatti d’Italia.
«Piaccia o no» - per ricalcare la frase del Presidente - altre date fatidiche sono soggette a una aperta discussione. Giorni or sono, avendo noi del Giornale azzardato un pro e contro sul Regno borbonico, e avendo io dato di quel regno una valutazione negativa - e del Risorgimento una valutazione positiva - sono stato investito da una valanga di lettere dissenzienti. Non m’è piaciuto il tono volgare che alcune tra esse avevano: ma la vivace reazione al tema m’è parsa un buon segno. Si scrive frequentemente, a firma di studiosi autorevoli, che l’intervento italiano nella Grande Guerra fu un errore, perché «l’inutile strage» avviò il Paese al disordine, alle pulsioni rivoluzionarie, alla reazione, al fascismo. Opinioni discutibili ma serie: e come tali accolte.
Ma la Resistenza no, è mirabile e intoccabile? Quest’impostazione va bene per i tromboni dei discorsi alati, ma fa male alla Resistenza. Proprio perché ha avuto connotazioni alte - e insieme con esse strascichi abietti - bisogna parlarne con franchezza, senza essere bloccati dall’altolà di vestali del tempio, autoproclamatesi tali. Non è offesa, ma è semplice verità, l’affermare che una componente notevole di quelle formazioni comuniste che nella lotta partigiana - lo ritengo assodato - furono maggioritarie, non voleva il ritorno della democrazia, tantomeno la democrazia dell’Italietta. Voleva una società comunista ispirata al modello sovietico. Vedeva in Giuseppe Stalin il buon padre dei popoli. Se le formazioni comuniste avessero prevalso - se cioè fosse mancata la presenza dei veri vincitori, gli angloamericani - l’Italia avrebbe avuto la sorte dei satelliti di Mosca. Non mi sarebbe piaciuto. È blasfemo affermarlo?
Nel nome dell’antifascismo furono compiuti molti atti di eroismo e fu sparso molto sangue. Giù il cappello. Senza che questo diventi un attestato di buona condotta per giustizieri come Francesco Moranino, che pure il Pci volle in Parlamento, e prima d’approdarvi aveva parlato da Radio Praga agli operai e ai contadini italiani spiegando quanto fosse triste la loro sorte di soggetti al giogo capitalista, tanto diverso dal clima delle forche cecoslovacche. Il fatto che molti intellettuali partecipassero a questi cori servili non migliora i cori e avvilisce gli intellettuali. Secondo Lucio Lombardo Radice «la scuola dell’Unione Sovietica è civiltà che si sviluppa: a noi, che viviamo in una civiltà che agonizza, tutto ciò sembra quasi fiabesco!».
Si osserverà che è facile irridere, retrospettivamente, alle sciocchezze di sessant’anni or sono e passa. Aggiungo che mi sembra sterile anche il ping pong di citazioni belliche: se da una parte c’è la Resistenza dall’altra c’è lo scontro di Montelungo in cui s’impegnò un reparto del ricostituito esercito. Evitiamo anche qui le leggende. La battaglia di Montelungo non fu tale - né per le dimensioni né per l’esito - da giustificare esaltazioni.
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