Cultura e Spettacoli

"Revolutions" Così la caduta del Muro ha (ri)aperto il mondo dell’arte

"Revolutions" Così la caduta del Muro ha (ri)aperto il mondo dell’arte

O gni tanto penso che non ce ne eravamo accorti, o almeno non completamente. Chi ha vissuto quei tempi da ragazzo si è trovato in un giro vorticoso di cambiamenti cui non era affatto abituato, perché allora si tendeva a misurare tutto per cicli e decenni –gli anni Settanta, gli anni Ottanta- intanto che aspettavamo il Duemila. Invece il 1989 riscrisse di colpo la storia –tant’è che Eric Hobsbawn fu costretto a inventarsi l’espressione “secolo breve” - e la geografia –le cartine e i mappamondi praticamente da buttare, con l’enorme macchia rossa in dissoluzione, tanti nuovi Stati con nomi sconosciuti. Il 9 novembre 1989 cade il Muro di Berlino e finisce il Novecento. Persino Heroes, la straordinaria canzone di David Bowie, fa l’effetto di una cartolina sbiadita nel tempo. Chi, come me, è nato nel 1961 ha passato ventotto anni della propria vita con il Muro e trenta senza: la storia dunque ha girato su se stessa. Di solito le rivoluzioni si perdono, fa eccezione quella francese e appunto quella del 1989 e sfido chiunque a sostenere che il mondo, nonostante tutto ciò che è accaduto dopo e continuerà ad accadere, non sia da allora un posto migliore. Dei fatti che contraddistinguono le rivoluzioni di quegli anni racconta, con dovizie di particolari, la cronologia di seguito. A ritroso, più ancora del Muro, del crollo dell’Urss e del blocco dell’Est, ciò di cui nessuno riuscì ad avere esatta percezione fu quel brevetto depositato a Ginevra dall’ingegnere inglese Tim Berners-Lee che inaugurò l’era del web. A fine 1991, in un mondo che stava scoprendo il telefono cellulare e la rete mobile (costosa, disturbata, primitiva), c’era un unico sito internet, il suo. Invenzione di cui recentemente sembra essersi addirittura “pentito”, se è vero che –sono parole sue- «il web ha creato opportunità, dato voce a gruppi emarginati e semplificato la nostra vita quotidiana, è anche vero che ha creato opportunità per i truffatori, dato voce a chi diffonde l’odio e semplificato ogni sorta di azione criminosa. A fronte delle nuove notizie di abusi nell’utilizzo del web è comprensibile che molti provino timore e non siano certi che il web si davvero una forza positiva. Ma considerando quanto il web è cambiato negli ultimi trent’anni bisognerebbe essere disfattisti e privi di immaginazione per ritenere che sia impossibile cambiarlo in meglio nell’arco dei prossimi 30 anni. Se adesso rinunciamo a costruire un web migliore, allora non sarà il web ad averci deluso, saremo noi ad aver deluso il web». Di questo straordinario processo, anche l’arte non si accorse in tempo reale e c’è da rifletterci su perché di solito la fantasia arriva prima della realtà. Ci si accorse, invece, che il mondo stava cambiando, accettando l’idea che l’arte non si limitasse all’Occidente e che ci fosse attorno a noi una nuova energia creativa proveniente da altri mondi. Nel 1989, infatti, inaugurò a Parigi (d’accordo, la capitale era ormai New York, ma l’Europa ci teneva a dimostrarsi sempre e comunque avamposto e avanguardia) Les Magiciens de la terre, prima mostra che metteva a confronto le ricerche contemporanee vicine e lontane: artisti africani, cinesi e dell’estremo oriente, sudamericani e australiani accanto ad europei e nordamericani. Aprì in quel Centre Pompidou, progettato da Rogers e Piano, che nel 1977 aveva cambiato il concetto e l’immagine di museo contemporaneo. L’arte, dunque, stava compiendo i primi passi verso la globalizzazione (Molteplici culture a Roma nel ’92, la Biennale di Venezia del ’93, Cocido y Crudo al Reina Sofia furono mostre altrettanto determinanti) ma tutto sommato il localismo degli anni Ottanta ancora funzionava, se si pensa che in Italia vigeva il regionalismo, che diversi artisti di Milano e Torino non avevano mai esposto a Roma e viceversa. Però nell’Italia di allora si respirava un clima di invidiabile effervescenza, la prima Repubblica era ancora solida e orgogliosa nel preparare l’evento degli eventi, i mondiali di calcio del ’90. Non li abbiamo vinti, nonostante i gol di Totò Schillaci, nonostante il successo di tre squadre italiane nelle tre coppe europee, per un’uscita sbagliata del portiere, perché ai rigori perdiamo (quasi) sempre, senza per questo deprimerci anzi trasferendo al mondo l’idea di un Paese dinamico e veloce. Non è casuale che la grande mostra sull’arte italiana giovane si fosse intitolata Italia ’90, promossa dalla rivista Flash Art alla Fabbrica del Vapore di Milano, ricognizione a tappeto, dunque inclusiva, su tutto ciò che stava accadendo nel Bel Paese, ritratto di una microgenerazione venuta dopo l’Arte Povera e la Transavanguardia. Numeri altissimi, oltre duecento, capitanati sull’edizione speciale della rivista da Corrado Levi (la sua vera età resterà sempre un mistero) che già negli anni Ottanta era stato talent-scout, artista, collezionista oltre che architetto. Da quella mostra uscirono i migliori, altri si sono persi per strada e anche i critici-curatori hanno seguito la stessa sorte. Nel frattempo a Prato si era aperto il Museo Pecci, secondo dopo il Castello di Rivoli interamente dedicato al contemporaneo. Dopo alcune mostre di taglio più internazionale, il direttore Amnon Barzel si concentrò sulla Scena emergente (molto Milano centrica, questa la critica ricorrente) nel tentativo prima di promuovere quindi di esportare i giovani trentenni destinati a raccogliere la pesante eredità dei fratelli maggiori. Non tutto andò bene (chissà perché, quando ci sono soldi gli artisti si dividono, litigano e l’idea di andare in gruppo si scontra con l’ambizione individualistica) eppure Una scena emergente rappresenta uno spaccato piuttosto realistico di ciò che si faceva allora in Italia e si è continuato a fare per buona parte degli anni Novanta: ottimo impianto formale, nulla di rivoluzionario quando altrove il vento del cambiamento si sentiva ben più forte. Però questa energia si doveva raccogliere, eccome, e non ci si poteva permettere il lusso di aspettare il calendario. Nell’estate del 1985 Renato Barilli, tra Bologna, Rimini, Imola e Ravenna, mise su la sua capillare ricognizione in progress degli Anni Ottanta, da cui emergeva accanto alle esperienze pittoriche più conclamate dalla critica e dal mercato, il carattere indipendente e meticcio della giovane arte italiana. Si sarebbe dovuto attendere almeno un decennio per rifare il punto sugli ultimi anni del secolo, ma nel frattempo erano accadute davvero troppe cose. Così Barilli (che era stato tra i curatori di Aperto alla Biennale di Venezia 1990) anticipò la sua seconda ricognizione, Anni Novanta, questa volta a Bologna, Rimini e Cattolica, al 199. Stesso impianto, tante griglie (la più divertente, il binomio oggetto hard vs oggetto soft) e molte presenze straniere accanto agli italiani. Una cosa simile era accaduta a Berlino. Nel 1982 Norman Rosenthal e Christos Joachimides curarono Zeitgeist (spirito del tempo) presso il Martin Gropius Bau, consacrazione dei neoespressionismi pittorici ivi compresa la Transavanguardia. Nel 1991 il Muro non c’era più quando i due critici aprirono Metropolis, la città del futuro che si rifaceva al capolavoro muto di Fritz Lang. Visitai quella mostra partendo in auto da Torino con alcuni amici eccitato di questo viaggio sull’Autobahn tedesca, ricordando ora un passaggio di Pier Vittorio Tondelli, che nel frattempo se ne era andato, «Correggio sta a cinque chilometri dall’inizio dell’auto Brennero di Carpi, Modena che è l’autobahn più meravigliosa che c'è perché se ti metti lassù e hai soldi e tempo in una giornata intera e anche meno esci sul Mare del Nord, diciamo Amsterdam, tutto senza fare una sola curva, entri a Carpi ed esci lassù. Io ci sono affezionato a questo rullo di asfalto perché quando vedo le luci del casello d’ingresso, luci proprio da gran-teatro, colorate e montate sul proscenio di ferri luccicanti, con tutte le cabine ordinate e pulite che ti fan sentir bene anche solo a spiarle dalla provinciale, insomma quando le guardo mi succede una gran bella cosa, cioè non mi sento prigioniero di casa mia italiana, che odio, si odio alla follia tanto che quando avrò tempo e soldi me ne andrò in America, da tutt’altra parte s’intende, pero e sempre andar via». Ogni tanto penso che non ce n’eravamo accorti, dicevo all’inizio. Eppure gli anni di quando non hai ancora attraversato la linea d’ombra o ci sei quasi ti sembrano pur sempre i più belli. Stavamo vivendo una rivoluzione e non lo capivamo, d’accordo, però ciò che fecero i giovani artisti italiani allora fu uno degli ultimi momenti di straordinaria e compatta inventiva per dire Goodbye al Novecento e prepararsi al Duemila.

Miei coetanei, poco meno, poco più, abbiamo vissuto la rivoluzione del mondo più che raccontarla e certe cose è meglio vivere che raccontarle.

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