Nel 2010, Sergio Marchionne chiese agli operai Fiat se accettavano di rinunciare a qualche diritto sindacale in cambio dell'assicurazione che la produzione di automobili, non solo sarebbe rimasta in Italia, ma sarebbe stata potenziata.
L'alternativa era che Fiat si sarebbe vista costretta a trasferire gli impianti produttivi in Nord America. Badate bene: Nord America (quindi Usa o Canada) e non, come era lecito attendersi, Cina.
Il governo si disse d'accordo. L'Opposizione, come le capita spesso, espresse l'intera gamma di posizioni: si, no, ni.
Per il no si espresse, oltre all'estrema sinistra, anche il sindacato «rosso» della Federazione italiana operai metalmeccanici (Fiom).
Fortunatamente, nel referendum indetto tra gli operai, vinsero, seppur di misura, i fautori del sì.
Alla base del diniego della Fiom ci sono due ragioni di fondo ed è quanto ci proponiamo di spiegare qui di seguito.
Prima ragione. La Fiom, nata con il Partito comunista italiano (Pci), continua ad essere legata all'estrema sinistra, che non ha mai abbandonato l'ideologia d'origine. Di conseguenza i suoi iscritti continuano a vedere nel datore di lavoro (e quindi, in questo caso, in Marchionne) un affamatore del popolo, uno sfruttatore dei lavoratori, il nemico da abbattere. Perché è questo che veniva loro inculcato dal Pci e che è rimasto nella loro mente. Quando Marchionne entra in una fabbrica Chrysler, le sue guardie del corpo debbono difenderlo dagli abbracci degli operai. Quando entra in una fabbrica Fiat, devono difenderlo dagli sputi o, se va bene, dai fischi.
Marchionne dice, modestamente, di non essere riuscito a far passare il messaggio come voleva.
La realtà è che agli occhi degli operai Fiom egli non aveva e non ha alcuna credibilità. Quando egli diceva che, in caso di esito negativo del referendum, egli si sarebbe visto costretto a trasferire le fabbriche in Nord America, gli operai della Fiom credevano che scherzasse e parlarono di indegno ricatto.
Avesse detto Cina, gli avrebbero creduto, ma... Usa...suvvia. Quindi la prima ragione è di natura ideologica. Gli operai della Fiom sono rimasti marxisti. Se la Fiat se ne va, ci penserà lo Stato a mantenerci. Non siamo forse una nazione fondata sul lavoro?
In Nord America il comunismo non sanno neppure cos'è e quindi non c'è odio nei confronti del datore di lavoro. Spesso, c'è una complicità che sfiora l'affetto.
Non è Marchionne che non sa far passare il messaggio. Sono gli italiani (fortunatamente non tutti) che non sono maturi per recepirlo.
(Del resto è quanto sta succedendo a Berlusconi in campo politico.)
Seconda ragione. La seconda ragione è che gli operai della Fiom non conoscono la realtà americana. Quando iniziai a frequentare il Nord America, avevo un sogno: vivere in Italia con uno stipendio americano. È vero, sono passati un bel po' di anni, ma adesso ho il sogno opposto: vivere in America con stipendio italiano. Esagerato? Solo chi immagina che tutta l'America sia come New York può pensarlo. Andate nei piccoli centri e scoprirete che la vita costa meno, molto meno, che da noi. A cominciare dalle due cose che maggiormente incidono sul bilancio familiare: casa e benzina. Certo le case sono quelle che noi, in Italia, chiamiamo spregevolmente «casette di legno», anche se il maggior architetto italiano (Renzo Piano) sostiene che il legno è il miglior materiale con cui costruire le case. Ma costano molto meno che da noi ed anche i giovani sposi possono permettersi di averne una. La benzina costa un dollaro. Da noi due. Sì: due, perché un euro e mezzo corrispondono a due dollari.
Purtroppo nei supermercati mancano le acciughe. Ma, per lo stesso prezzo, puoi mangiare gli astici! Io penso che pochi italiani conoscano questa realtà. Un mio amico di Pavia, che invece la conosce, va a svernare in Arizona. Certamente non la conoscono gli operai che hanno detto no al recente referendum della Fiat. Altrimenti avrebbero capito che l'idea di Marchionne di spostare la produzione di auto in Nord America non era per niente una boutade.
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