da Roma
È una partita a scacchi lunga una giornata quella che va in scena sulla riforma della legge elettorale. Una sorta di pièce teatrale, in cui alcuni ruoli restano fissi e altri si scambiano, in un gioco di specchi in cui l’obiettivo non è tanto quello di esercitarsi sulle alchimie del proporzionale o del maggioritario ma piuttosto allontanare lo spettro delle elezioni. O magari, come accade nel centrodestra, rivendicare la propria autonomia e dettare una strategia alternativa a quella del muro contro muro sposata da Silvio Berlusconi.
La giornata si apre con una parziale apertura al dialogo: quella di Gianfranco Fini. «È evidente che occorre verificare se la maggioranza sarà ancora tale tra qualche giorno dopo gli scogli di Finanziaria e welfare» dice il leader di An. «Se ci sarà ancora un governo Prodi, avendo messo tra i punti del suo programma la riforma elettorale, attenderemo la sua proposta, se ne farà una. E, comunque, finché il governo avrà una maggioranza, seppur brutta, sgradevole e risicata, non si può parlare di continuo solo di elezioni». La priorità, dice in soldoni il leader di An, è cacciare Prodi. Ma se il governo dovesse reggere, il confronto sarebbe inevitabile. Con una postilla. «Se ai primi di gennaio la Consulta dovesse dare il via libera al referendum, accanto alla via parlamentare si aprirebbe un’altra via».
Se Gianfranco Fini apre uno spiraglio al dialogo, Pier Ferdinando Casini spalanca la porta. «Vedrete che sulla legge elettorale inevitabilmente dialogherà anche Berlusconi», dice il leader centrista al convegno dei Circoli di Marcello Dell’Utri. «Noi non facciamo né passi avanti, né passi indietro. Il dibattito sulla riforma della legge elettorale è una cosa a parte e noi siamo interessati al modello tedesco: quindi la votiamo con chi ci sta». Detto questo «il governo prima se ne va a casa e meglio è. Le nostre energie devono essere impegnate a mandarlo a casa entro questa settimana».
I segnali di dialogo, apparentemente, sono troppo ghiotti per sfuggire all’attenzione dei «cacciatori di alleanze» presenti nel centrosinistra. E così Walter Veltroni prima fa un’apertura a sorpresa «su un sistema proporzionale senza premio di maggioranza». Poi lancia l’amo nella direzione di Casini e Fini, manifestando apprezzamento per le loro apparenti aperture. «È molto importante quello che viene detto da Udc e An, anche se domani queste dichiarazioni vengono corrette, perché so com’è fatta la politica italiana. Ma so anche che in gran parte del centrodestra c’è la stessa preoccupazione e la consapevolezza che un successo effimero alle elezioni si possa tradurre nella realtà che c’era nella scorsa legislatura».
La reazione alla sortita veltroniana dai due partiti del centrodestra assume contorni diversi. Se l’Udc apprezza «come un passo in avanti» la disponibilità a mettere da parte il premio di maggioranza, Gianfranco Fini pianta i suoi paletti. «Per evitare malintesi o strumentalizzazioni, è opportuno ribadire che per An la priorità è far cadere il governo Prodi e consentire agli italiani di tornare alle urne», scrive in una nota il leader di via della Scrofa. «Soltanto se la maggioranza supererà il dibattito parlamentare sulla Finanziaria - aggiunge - si porrà il problema di come rispondere all’ipotesi avanzata da Veltroni». Un concetto amplificato da Gianni Alemanno e Ignazio La Russa che dicono al segretario del Pd di «non illudersi di dividere il centrodestra». In realtà i contraccolpi alle profferte del sindaco di Roma si sentono. Ma, come in un effetto boomerang, la scossa tellurica investe soprattutto il centrosinistra. Il presidente del Consiglio, infatti, glissa sull’argomento, dimostrando ben poco entusiasmo per il «sondaggio» veltroniano. «Oggi sulla legge elettorale ce ne sono state di tutti i tipi» dice Romano Prodi. E un’altra dura stoccata arriva dai diniani.
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