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Rinchiudersi in casa è sempre sbagliato

Alla lunga arroccarsi nella difesa dell’interesse nazionale porta al generale impoverimento. Ecco perché non bisogna cedere alla tentazione di dotarsi di leggi simili a quelle francesi

Rinchiudersi in casa è sempre sbagliato

Quando chiesero a Paul Samuelson se esisteva un argomento in grado di riscuotere il favore degli economisti (in genere assai divisi), egli rispose che a suo parere la quasi totalità degli studiosi è favorevole a evitare dazi e dogane. La cosa non deve stupire, dato che alle origini della civiltà ci sono proprio la divisione del lavoro e la specializzazione che ne consegue, ma tutto ciò sarebbe impossibile in assenza del libero scambio.

In questo senso, il protezionismo praticato da tanti Paesi occidentali (e ora riproposto pure dal governo italiano, alle prese con una dura vertenza con Parigi) rappresenta un ritorno al passato remoto. In generale, è un atteggiamento che non solo si sposa con logiche autoritarie, come avvenne al tempo dell’autarchia mussoliniana, ma che soprattutto riduce quell’integrazione internazionale senza la quale molta della prosperità che ci circonda semplicemente non esisterebbe.

La chiusura di fronte allo «straniero» è spesso sostenuta da deboli argomenti economici. Si afferma, ad esempio, che le merci cinesi distruggono i posti di lavoro italiani, ma non ci si avvede che i cinesi portano qui i loro prodotti solo se noi spediamo là i nostri. E quindi se in Italia c’è qualcuno che non potrà più produrre jeans a 30 euro perché gli italiani preferiscono quelli cinesi che costano la metà, questo succede perché una parte della nostra produzione cresce e trova sbocco proprio nei mercati asiatici. Aprire i mercati significa scoprire nuove opportunità: esattamente come quando qualcuno produce innovazione e, fatalmente, mette fuori gioco altre aziende. Vogliamo impedire l’innovazione, dal momento ne derivano anche conseguenze negative?

Sul fatto che sia meglio che due Paesi tengano aperti i loro mercati, però, il consenso è abbastanza ampio. Le cose talvolta cambiano di fronte all’ipotesi di restare egualmente liberali quando un altro Paese, invece, si chiude. In breve, di fronte a una Francia che si arrocca ha senso che l’Italia resti liberale? La mia risposta è affermativa, per una ragione molto semplice.
L’apertura dei mercati non è solo funzionale alla possibilità di esportare. Un’economia guadagna quando esporta, ma anche quando importa, e questo è del tutto evidente quando si osservano i danni delle politiche che ostacolano l’importazione. Un caso da manuale è quello dell’Argentina, che avendo scelto di bloccare ogni importazione di beni che qualcuno già realizzasse in loco non soltanto ha colpito pesantemente i consumatori, ma ha minato le prospettiva delle stesse aziende. Come poteva un’impresa di Buenos Aires reggere la concorrenza internazionale se i suoi competitori di altri Paesi si approvvigionavano presso le imprese migliori, mentre essa doveva necessariamente rifornirsi da aziende locali, anche se inefficienti? Quando la Francia si chiude, insomma, danneggia i francesi e il proprio sistema produttivo. Per quale motivo l’Italia dovrebbe fare imitarla?

Le questioni si complicano un po’ quando abbandoniamo le logiche di mercato, considerando le implicazioni politiche. D’altra parte, è pur vero che il protezionismo è una cosa sola con quello Stato moderno (da Colbert a Napoleone, da Bismarck a Lenin) che ha visto i politici impadronirsi della vita produttiva e quest’ultima diventare una componente del conflitto politico: all’interno come all’esterno. Quando le cose stanno così, ha ancora senso essere liberali? Se aprire le frontiere agli scambi significa consentire a fondi sovrani e ad aziende controllate da altri governi di acquistare pezzi importanti del nostro sistema produttivo, siamo sicuri che la logica del mercato abbia ancora legittimità?

Pure in questo caso mi sento di dire che sarebbe assurdo bloccare le merci alle dogane, introdurre golden share a disposizione del ceto politico e anche fare shopping giuridico - per usare la formula utilizzata da Giulio Tremonti - al fine di adottare le regole più illiberali precedentemente introdotte altrove. Se si riflette solo un attimo, ci si rende subito conto che quel tipo di preoccupazione («arriva una potenza straniera e s’impossessa di nostre imprese fondamentali») ha spazio solo in un Paese statizzato, ossia in una società dominata da monopoli pubblici o comunque protetti dalla legge.

In un Paese che abbia sposato davvero le logiche della concorrenza, l’acquisto di un’azienda (una banca, una compagnia telefonica, un’industria che produce latte e yogurth, ecc.) da parte di un altro Stato non può creare la minima apprensione. Quell’impresa reggerà se sarà ben gestita e, quindi, se soddisferà i consumatori producendo a basso prezzo e alta qualità. Se non sarà così, i clienti si rivolgeranno altrove.

Non si tratta di essere dottrinari, ma si tratta semplicemente di constatare che gli argomenti pretestuosamente "difensivi" usati in questi giorni svelano - ma certo lo sapevamo già - quanto l'Italia sia lontana dall'essere un libero mercato e quanto, invece, sia un conglomerato di potentati che s'alimentano con rendite politiche. Essi ci dicono anche come sia collettivista il modo prevalente di considerare la vita economica, dal momento che "sbarrare la strada" allo straniero significa spodestare i proprietari. Siamo di fronte, in poche parole, a una forma di esproprio.

I principali argomenti contro il protezionismo e le chiusure nazionalistiche, ad ogni modo, non sono di natura economica. Gli autori liberali amano ricordare una celebre espressione di Frédéric Bastiat (ricorre in Bruno Leoni, ad esempio), che una volta affermò che quando una frontiera non viene attraversata dalle merci, prima o poi vedrà il passaggio degli eserciti. La storia purtroppo s'è incaricata di dare ragione all'economista francese, dato che il protezionismo di fine Ottocento ha favorito quella crisi delle relazioni europee che porterà alla Grande Guerra.

Cancellare i dazi, al contrario, significa predisporsi a mettere da parte i cannoni. E infatti quando Amsterdam era il cuore economico e culturale dell'Europa, oltre che la sua città più tollerante, sul porto troneggiava una grande scritta, "Commercium et Pax".

Quella gente aveva ben chiara la relazione tra l'uno e l'altra, e come la chiusura delle frontiere potesse essere foriera di conflitti e di morte.

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